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venerdì 1 novembre 2013

UN MONUMENTO PER LE VITTIME DELLA STRAGE DI "ERBA ROSSA"


"Erba rossa", la strage dimenticata di Conca della Campania. Settant’anni fa, il primo novembre del 1943,  i tedeschi in fuga  uccisero per rappresaglia trentanove persone. Stamani nella frazione di “Cave” è stato inaugurato un monumento davanti alla chiesa e una croce in contrada “Faeta" con i nomi delle vittime. Di quell’eccidio non c’era una lapide, un ricordo. Niente. Se la strage è venuta fuori, lo si deve soprattutto a Graziella Di Gasparro e alla sua caparbietà. Graziella ha ottant’anni, all’epoca ne aveva 10. I tedeschi le uccisero il padre. Lo vide uscire quel primo novembre del ’43 con un secchio d’acqua e avviarsi verso una postazione tedesca, perché la loro casa era occupata dai nazisti. Fu tra coloro che non  tornarono più a casa. E’ seduta in prima fila su una sedia a rotelle e mostra tutta la sua soddisfazione per una battaglia cominciata tantissimi anni fa.

 “Finalmente qualcosa che ricordi le vittime dei tedeschi. Sono contenta davvero e lo sarebbe anche il mio papà”. In tutti questi anni, nonostante una disabilità che le limita la mobilità, non si è data pace per non far  dimenticare la morte di tanti innocenti. Una strage che non ha mai avuto riscontri ufficiali. Se n’è trovata traccia solo “nell’armadio della vergogna”. Un armadio che è stato trovato  pochi anni fa in un palazzo romano del cinquecento, in via degli Acquasparta, sede della Procura generale militare, dove venivano depositati fascicoli di tutte le stragi naziste. C’erano i nomi delle vittime e anche quelli dei carnefici. Ma fu deciso di salvare i criminali nazisti. Potevano essere utili per informazioni contro il nemico. Salvarono i criminali, ma uccisero nuovamente le vittime.

“Fu una rappresaglia – racconta lo storico Felicio Corvese che da anni cerca di ricostruire la strage di Conca della Campania – in località Orchi  un ufficiale americano travestito da frate, uccide un soldato tedesco. La rappresaglia nazista non si fa attendere. In tutta la zona ci furono morti ammazzati tra i civili dopo veri e propri rastrellamenti . La loro sete di vendetta li fa girare per le case sparse nelle campagne, prelevano diciannove uomini, tra cui anche due ragazzi di quindici e sedici anni. In contrada “Faeta” obbligano  prima a scavarsi la fossa l’uno per l’altro e poi li ammazzano a  tre alla volta”.

La strage di Conca della Campania, che  in questi anni è rimasta viva solo nella memoria di chi era stato testimone o  di quelli che hanno perso i fratelli, i padri, gli zii, ha avuto almeno un riconoscimento delle istituzioni locali. L’iniziativa del monumento,  infatti, è stata del Sindaco di Conca. Con lui c’erano anche  l’avvocato Carlo Sarro, parlamentare Pdl, che difende il Comune nella causa contro lo Stato italiano  per il riconoscimento della medaglia d’oro al valor civile; c’erano i primi cittadini dei numerosi comuni dell’alto casertano, Mignano Montelungo in testa,  dove gli anglo-americani sbarcati a Salerno,  rimasero impantanati per alcuni mesi prima di annientare la resistenza dei tedeschi in fuga. E, soprattutto, c’era tantissima gente.  “Caro papà – è la lettera che Graziella di Gasparro ha scritto al padre  -  io non so dove tu sia perché non riesco ad immaginare l'aldilà che dovrebbe accogliere gli esseri che non ci sono più. Eppure ti parlo. Ti parlo e so che tu mi ascolti, perché tu vivi da sempre nei miei pensieri…” Graziella ha letto la lettera davanti alla croce installata sul sentiero che porta al luogo della strage. “Volli vedere dov’era mio padre – ricorda tra le lacrime l’anziana donna – lo trovai in una pozza di sangue. Aveva il cranio sfondato da un proiettile e tutt’intorno l’erba era diventata rossa. Rossa del sangue del mio papà. Vorrei che si diffondesse in ogni valle l'orrore della guerra, perché mai più cresca nei prati un'erba tinta di rosso”.


GIOVANNI POMPONIO MORTO PER DIFENDERE LE PAGHE DEI FERROVIERI



Giovanni Pomponio
Il brano che segue è tratto dal mio libro "Come nuvole nere" (Melampo editore)
 
Giovanni Pomponio morirà il 30 ottobre 1975 dopo 3 giorni di agonia.
 
Quel giorno, il vice brigadiere di Polizia Giovanni Pomponio ha il turno di riposo. Ma i suoi superiori la sera prima lo hanno pregato di andare ugualmente al lavoro. “Ci sono gli stipendi da pagare e non abbiamo molti uomini per la sicurezza. Domani serve anche la sua presenza come responsabile di scorta”. Il mattino seguente, Giovanni ha un impegno importante: partecipare alla messa in ricordo di una giovane nipote della moglie. La ragazza era morta il 28 di ottobre di sei anni prima, a 16 anni, a seguito di un incidente. Giovanni vuole assolutamente andare alla funzione religiosa, ma la moglie lo rassicura: “Non ti preoccupare. Dirò a mia sorella che non sei potuto mancare dal servizio. Io andrò con l’autobus e al ritorno prenderò un taxi”. Quel consiglio dato al marito, Antonietta Vigliotti non se lo perdonerà mai, fi no alla morte. Il 28 ottobre del 1975, il vice brigadiere di Polizia Giovanni Pomponio è puntualmente al lavoro alla stazione ferroviaria di Napoli-Gianturco per scortare le paghe dei dipendenti delle Ferrovie. Sa che fra quattro giorni avrà tutto il tempo libero che vuole, perché andrà finalmente in pensione, dopo 37 anni di servizio in Polizia.


 


“E invece – racconta Sergio, il secondo figlio di Giovanni – la pensione non se la godrà mai, perché quella mattina mio padre verrà colpito a morte durante una rapina. Una banda di criminali assalta l’ufficio cassa. Sono armati di mitra e pistole per portare via 500 milioni che servono per pagare gli stipendi dei ferrovieri. Mio padre, ferito alla gola, morirà in ospedale, dopo tre giorni di agonia. Poteva rifiutarsi di rientrare in servizio quel giorno, ma lui era un servitore dello Stato, non sapeva dire di no”. Giovanni Pomponio il 28 ottobre parte presto dalla sua casa al Vomero, vuole evitare il traffico mattutino. Le strade sono quasi deserte a quell’ora, Napoli ancora dorme, ma presto si animerà di gente, di colori e di frastuoni. Poco dopo le sette è nella sede della Polizia Ferroviaria della stazione di Napoli-Gianturco. Giovanni non sa che ci sono anche altre persone che si sono alzate presto e che sono interessate agli stessi soldi che gli hanno chiesto di proteggere. Sono una banda di spietati criminali torinesi che fanno rapine in serie, negli ultimi diciotto mesi ne hanno messe a segno ben sedici. Sono arrivati a Napoli da qualche giorno, si spostano col treno, oppure in aereo, per evitare al massimo i controlli delle forze dell’ordine. Non si fanno vedere troppo in giro e non frequentano altre persone, solo quelle strettamente necessarie per organizzare nei minimi particolari le rapine. Colpiscono e spariscono senza lasciare tracce. Hanno saputo che a Gianturco il bottino è appetibile. Hanno avuto una soffiata da un basista e vogliono a tutti i costi mettere le mani sulle paghe dei ferrovieri.


 
Con Giovanni Pomponio ci sono altri sette agenti per difendere la cassa. Il vice brigadiere incarica cinque di essi di provvedere al trasferimento di 450 milioni alla stazione ferroviaria di Napoli Centrale, dove verranno pagati la gran parte degli stipendi. Abitualmente il trasporto delle paghe avviene intorno a mezzogiorno. Stavolta Giovanni Pomponio decide di anticipare questa incombenza. Appena in tempo. I rapinatori entrano in azione poco dopo le nove del mattino. Quattro banditi, armati di tutto punto, scavalcano il terrapieno di Rione Luzzatti e arrivano da un cancello laterale dell’ufficio cassa. Un cancello che sino ad allora è stato sempre chiuso.


 
Giovanni si accorge di una persona sconosciuta vicino all’ufficio paghe e forse vede anche un’arma che lo mette in allerta. Non ha notato che alle sue spalle ci sono altri due banditi. Carica il mitra e si gira verso lo sconosciuto: “Dove vai, fermati!”, gli intima. Quella mossa è la sua condanna a morte, perché da dietro gli sparano a bruciapelo per ucciderlo. Mirano alla testa, lo colpiscono alla nuca. Il proiettile fuoriesce dalla gola. Il colpo gli trancia la vena giugulare. Il vice brigadiere di Polizia cade a terra in una pozza di sangue. Un ferroviere ha visto tutto. Corre vicino a Giovanni cercando di soccorrerlo: “Bisogna portarlo in ospedale o morirà”. “Non lo toccare altrimenti farai la stessa fi ne”, gli grida uno dei banditi. Non si fanno scrupoli. Sono spietati. Si avvicinano al poliziotto a terra, gli sfilano il mitra e la pistola e continuano la rapina come se nulla fosse accaduto (…)”
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