Tophost
Google

mercoledì 27 giugno 2012

LA FIGLIA DI TERESA BUONOCORE DEPONE AL PROCESSO: "DICEVA SE PARLI UCCIDO TUA MADRE"

(AGI) - Napoli, 26 giu. - "Ha abusato di me e poi mi ha minacciato con la pistola. Diceva: 'se racconti quello che e' successo uccido tua madre'". E' il drammatico racconto di una delle due figlie di Teresa Buonocore, la donna uccisa nel settembre del 2010 per avere denunciato l'uomo che aveva abusato della ragazzina. La vittima di quele violenze ha deposto oggi al processo per l'omicidio che si sta svolgendo davanti ai giudici della III corte d'Assise di Napoli. "Una pistola ce l'aveva nel cassetto della cucina e l'altra nella cassetta dei ferri nello scantinato. Io avevo otto anni". La giovane teste ha parlato dei rapporti con Enrico Perillo, imputato come mandante, il geometra amico di famiglia gia' condannato in primo grado per quegli abusi: "Le violenze - ha spiegato la ragazza rispondendo alle domande del pm Graziella Arlomede - avvenivano quando le figlie di Perillo, mie amiche, stavano nella loro camera a giocare a computer". Quando Teresa Buonocore decise che sua figlia non dovesse piu' frequentare la famiglia del geometra, le venne bruciata la porta di casa. Poi fu ammazzata per vendetta. Per quel delitto due ragazzi sono gia' stati condannati con il rito abbreviato a 14 e 16 anni.

martedì 26 giugno 2012

MARIO DIANA, IMPRENDITORE, UCCISO A CASAPESENNA IL 26 GIUGNO 1985


Sono le 8,30 del 26 giugno 1985. Mario Diana arriva al bar "Oreste", nella piazza di Casapesenna, a bordo della sua “Citroen Bx”. Scende dall’auto dopo averla parcheggiata dall’altro lato della strada. I suoi assassini lo hanno seguito da quando è uscito  di casa.  Lo stavano aspettando con le armi da fuoco già pronte all’uso. Mario Diana fa pochi passi per salire i quattro gradini che separano la strada dall’ingresso del bar. Con le armi in mano i suoi assassini fanno segno agli altri clienti di entrare. Poi lo chiamano per nome, per essere certi di non commettere errori: “Mario! Mario Diana…”. Mario si gira. Aspettava di sentire altre parole, ma non ha il tempo di rendersi conto di quello che gli sta per accadere. Crepitano solo le armi: due colpi di un fucile semiautomatico calibro 12 squarciano il silenzio e il tepore di quella mattinata. Rimbombano nell’aria spargendo per centinaia di metri il messaggio di morte. Il primo colpo lo raggiunge al torace.  Mario cade a terra. Uno solo dei killer scende dall’auto e si avvicina.  Gli spara un secondo colpo alla tempia, sfigurandogli  la faccia. E’ un ulteriore sfregio alla vittima. La morte arriva veloce e non fa fatica a portarselo via.

La vita di Mario Diana, 49 anni, imprenditore nel settore dei trasporti, finisce quella mattina all’entrata del bar di ”Oreste”, nella piazza di Casapesenna.

Mario Diana era sposato con Antonietta Cirillo, da cui ha avuto quattro figli: Teresa,  due gemelli maschi, Antonio  e Nicola,  e Luisa. Proveniva da una famiglia di agricoltori. Cominciò a fare l’autotrasportatore da giovanissimo, proprio nel settore agricolo. Nel 1962 aveva comprato il suo primo camion. Un po’ con il supporto della sua famiglia, un po’ con l’aiuto della famiglia di sua moglie. Poi l’attività cominciò a crescere ed entrò nel settore del trasporto delle pietre, sabbia e del calcare. Ben presto diversificò l’attività affacciandosi al settore industriale ed iniziò a collaborare con la Montedison nei servizi di trasporto merci nazionale.

“Ricordo tutti i particolari di quella giornata. Ricordo anche bene i giorni precedenti, perché io e mio fratello gemello, Nicola, compimmo diciotto anni quarantotto ore prima che lo ammazzassero - racconta con una vena di tristezza negli occhi il figlio Antonio, oggi 45enne e affermato imprenditore nel settore del recupero e del riciclo della plastica - uscii di casa prima di papà per andare a Cassino con mio zio Armando. Dovevamo comprare dei cassoni grandi. Arrivammo che erano le 9,30 e poco dopo mio zio ricevette una telefonata. Qualcuno lo avvisò di quello che era accaduto a mio padre. A me, però, non disse niente, ma cambiò completamente espressione. Notai soltanto che era molto turbato. “Dobbiamo tornare immediatamente a casa. C’è un problema. C’è un grosso problema”. Solo questo riuscì a dire mio zio con un filo di voce. Durante il tragitto per il ritorno non parlammo e io non gli chiesi niente, ma sentivo che il qualcosa era accaduto alla mia famiglia."

“Mario Diana? L’abbiamo ammazzato io, Dario De Simone e Antonio Iovine”  ha confessato  Giuseppe Quadrano, al processo di primo grado che si è celebrato dopo vent’anni, presso la Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere. Un processo nato dalle dichiarazioni di due collaboratori di giustizia: Giuseppe Quadrano e Dario De Simone. Fu Quadrano, arrestato per l’uccisione di don Giuseppe Diana , a parlare nel 1995 dell’uccisione di Mario Diana. Le sue dichiarazioni furono confermate un anno dopo da Dario De Simone, altro killer del clan de casalesi che a sua volta divenne collaboratore di giustizia. 

mercoledì 13 giugno 2012

SALVATORE SQUILLACE, ERA AL BAR CON GLI AMICI. FU UCCISO LA DOMENICA MATTINA DA UN PROIETTILE VAGANTE IL 10 GIUGNO DEL 1984

Un 'altra di quelle morti assurde di cui la memoria cerca di cancellare le tracce col passare del tempo. Salvatore se ne stava con gli amci al bar una domenica mattina. Il suo giorno di riposo dopo una settimana di lavoro da imbianchino. Si era alzato presto come non mai quel girno. Era lì per caso. Ed è morto per caso.

La storia che segue è tratta dal mio libro: "Al di là della notte". (Tullio Pironti editore)


È una tranquilla domenica di primavera, ma non a Marano, un Comune della provincia di Napoli dove ha la base il clan Nuvoletta, uno degli avamposti della mafia siciliana ai piedi del Vesuvio. Nella tenuta dei Nuvoletta, a Poggio Vallesana, si consuma uno degli episodi che segnano l’inizio di una delle più feroci faide tra i clan della camorra campana. Uomini del clan dei Casalesi e del clan Alfieri, guidati da Antonio Bardellino, entrano con uno stratagemma all’interno del fortino dei Nuvoletta. Sono vestiti da carabinieri. Bussano al citofono. Dall’interno pensano ad uno dei tanti controlli che fanno periodicamente le forze dell’ordine. Stavolta non è così. È un’incursione a sorpresa. Si aprono i cancelli. Ma prima che si chiudano, entrano anche altre auto appostate lontano dagli occhi delle telecamere che sorvegliano l’ingresso di Poggio Vallesana. È la resa dei conti tra clan della camorra. È una sfida che i Nuvoletta non avevano messo nel conto. L’obiettivo della spedizione militare è quello di eliminare il capostipite dei Nuvoletta, Lorenzo. La sorpresa riesce in parte. E si conclude con la morte di uno dei rampolli del clan, Ciro Nuvoletta che, ferito, tenta di scappare, ma è raggiunto dallo stesso Bardellino e finito con un colpo in faccia.

Compiuta l’incursione a sorpresa, i Casalesi e il gruppo del clan Alfieri scappano a bordo delle auto con le quali sono arrivati. I picciotti dei Nuvoletta, superato il fattore sorpresa, reagiscono armi in pugno inseguendo gli assalitori mentre scappano in auto. Si spara all’impazzata. In piazza Garibaldi, vicino ad un bar, come ogni domenica, ci sono frotte di ragazzi. Quando arrivano quattro auto che sgommano a tutta velocità, le armi da fuoco continuano a sputare proiettili. Colpi di mitraglietta, fucili a canne mozze, pistole. Si spara per uccidere, incuranti della gente che c’è per strada. Poco prima da quelle parti c’era stata una manifestazione di pensionati. Poteva accadere una strage. I ragazzi fuori al bar, quando sentono sparare, si buttano istintivamente per terra per ripararsi dai colpi. Uno di essi, però, non fa in tempo. Viene colpito alla tempia da un bossolo sparato dagli uomini all’interno di quelle auto. Cade in un lago di sangue. Il giovane è Salvatore Squillace, ventotto anni. Faceva l’imbianchino insieme al papà. E quella mattina in piazza Garibaldi non doveva esserci.

«Mio fratello Salvatore», racconta Concetta, la sorella più giovane di due anni, «la domenica mattina non si alzava mai prima di mezzogiorno. Il lavoro di imbianchino lo teneva impegnato per l’intera settimana e nel giorno di riposo se la prendeva comoda. Evidentemente quella mattina il suo destino era segnato. Era scritto da qualche parte che doveva incontrarsi con la morte. Scese alle nove e trenta, anche perché il sabato precedente non aveva lavorato. Andò fuori al bar, in piazza Garibaldi, per incontrarsi con i suoi amici. Il bar era il loro abituale punto di ritrovo. Le macchine di quelle persone che scappavano da Poggio Vallesana si materializzarono all’improvviso. Salvatore stava parlando quando arrivarono. Sparavano come forsennati. Uno di quei colpi si conficcò nella tempia di mio fratello.

Salvatore era alto 1,78. Era il più lungo della comitiva. Forse anche per questo fu colpito. Gli altri, tutti più bassi di lui, sentirono passare sopra la propria testa i proiettili. Salvatore a terra ci cadde. Una confusione indescrivibile in quei momenti così concitati. Urla, paura, tante gente che scappava. Salvatore abitava con i miei genitori a circa cento metri dal luogo in cui fu colpito. Un palazzo dove c’erano altri miei parenti. Anche mia mamma si affacciò dal balcone dopo aver sentito i colpi di pistola e le urla della gente. “Perché tutta questa confusione?”, chiese. Ma nessuno seppe dirle di più. Le dissero solo che avevano sparato e che una persona era stata ferita. Nient’altro. Anche mio padre era a casa quella mattina. Lo seppero poco dopo che il ferito era Salvatore. Nel frattempo mio fratello fu trasportato al Cardarelli di Napoli. Ci pensarono gli amici di sempre a farlo. Lo caricarono su un’auto e vi arrivarono a tutta velocità. Era ancora vivo. Quando vennero ad avvertire me, stentavo a crederci. “Salvatore a quest’ora starà ancora dormendo. Vi sbagliate, non può essere mio fratello”, dicevo a chi era venuto a portarmi la triste notizia. Ma lo dicevo solo perché speravo che non fosse vero. Andammo tutta la famiglia al Cardarelli. Io, mio padre Armando, mia madre Angela e mia sorella Nunzia, che all’epoca aveva diciannove anni e non era sposata. Io avevo una bambina di due anni. La lasciai da un vicino. Salvatore era in sala di rianimazione. Rimase sei giorni tra la vita e la morte. E noi, altrettanto, restammo per sei giorni e sei notti in ospedale a sperare che mio fratello si riprendesse. Papà fu il primo a parlare coi medici. Gli dissero subito che non c’era alcuna speranza. Da allora papà non disse più una parola. Si chiuse in un mutismo profondo.


Dopo sei giorni di coma, Salvatore spirò. Non ci fu più nulla da fare. Ai suoi funerali accorse una folla enorme, gli amici, i rappresentanti delle istituzioni, ma anche quelli che non lo conoscevano. La sua morte colpì tutti. «Mia mamma dopo i funerali si chiuse. Il dolore prese il sopravvento», dice con la voce tremante e con un filo di commozione Concetta. «Non voleva vedere più nessuno. Chiudeva le tapparelle, chiudeva la luce. Stava sempre al buio. Per tre anni rimase chiusa in casa. Come se non esistesse più niente e nessuno. Mio padre, allo stesso modo, non aveva più voglia di vivere. Lui poi con Salvatore ci stava anche sul lavoro. Un colpo durissimo. Da quel giorno non è mai stato più lo stesso.

All’ospedale, in quei giorni tremendi, vennero a trovarlo tutti gli amici. E ne aveva tantissimi. Salvatore era un ragazzo semplice. E come tutti i giovani della sua età, amava la vita. Spendeva molto del suo tempo libero aiutando le persone in difficoltà. Era una delle cose che noi non sapevamo. Due ragazzi in particolare erano aiutati da Salvatore, Patrizia e Lello. Erano due ragazzi disabili. Mio fratello frequentava gli ambienti cattolici e alcuni dei preti che lui conosceva, padri francescani, ci sono stati molto vicini anche dopo la sua morte».

Mio padre è morto per il dolore a ottantuno anni. Acasa dei miei genitori non c’era più un giorno di festa. Non esistevano più le domeniche. A Natale era proibito anche fare l’albero. Mia mamma non ne voleva sapere. Ripeteva sempre: “Ormai sono un vegetale. Non vivo più. Me l’hanno strappato negli anni più belli. Non me lo dovevano fare. Non me lo dovevano fare”. Salvatore era il primo figlio e anche maschio. E mia mamma stravedeva per lui. Per anni ha portato il lutto. Poi, man mano che passava il tempo, proprio perché c’erano i miei figli, mia madre si è aperta un po’. Ma sono sopraggiunte le malattie anche per lei. Tra ischemie e altre patologie sta molto male. Non riesce più a parlare. Non si è mai ripresa da quel 10 agosto del 1984. È assente, vuota. E ogni giorno che passa è sempre la stessa storia. Sempre più assente. Ora le siamo vicini io e mia sorella Nunzia. Ma mia madre, che ha settantasette anni, è spenta dentro. Vive con me a casa mia. La casa dove abitavamo l’abbiamo venduta. Siamo stati tutti d’accordo a cederla. Troppi ricordi, troppe cose che ricordavano Salvatore. Nessuna di noi l’ha voluta. Ho chiesto anche ai miei figli e nessuno è voluto andarci.

I miei ragazzi sono ancora traumatizzati. Addirittura non riescono a vedere i film di mafia o camorra. Gli ricordano la morte dello zio Salvatore». Sulla tomba di Salvatore, nel cimitero di Marano, ci sono sempre fiori. «Sono gli amici che li portano», dice Concetta sospirando. «Spesso vicino alla tomba ci trovo un suo amico, Gaetano, uno dei più intimi di Salvatore. Ci va con la sua bambina a trovarlo. Gaetano ha il rimorso di non averlo salvato, perché quella mattina voleva portarlo con lui a comprare del pesce. Salvatore non ci volle andare. “Se avessi insistito», dice sempre, “forse Salvatore sarebbe ancora vivo”». Ma Gaetano non è il solo che si ricorda di Salvatore. Sono in tanti gli amici che passano al cimitero per una preghiera. E poi c’è una signora che gli pulisce sempre la tomba. «È la mamma di Lello, il ragazzo disabile che Salvatore aiutava. Ora è morto. “Perché viene a pulire la tomba di mio fratello?”, le ho chiesto quando l’ho trovata lì. “Salvatore trattava mio figlio Lello come un fratello. E io non me lo dimentico”».
«Al processo», dice ancora Concetta, «non ci siamo costituiti parte civile. Un po’ per la paura, un po’ per il disinteresse. Siamo lontani da certe cose e certi ambienti. A noi hanno detto che quelli che l’hanno ucciso a loro volta sono morti di morte violenta o sono in carcere. Oggi, però, sarebbe diverso. Sapremmo come agire. Ora giro nelle scuole per raccontare ai ragazzi chi era mio fratello. Lo faccio soprattutto per dire che queste cose non devono più accadere».
Nella villa comunale di Marano c’è il “giardino della memoria”. In quel giardino c’è un albero col nome di Salvatore. «Un bel gesto», dice sorridendo Concetta. «Desidererei che mio fratello fosse ricordato anche dai ragazzi che non l’hanno conosciuto. Non mi dispiacerebbe se una scuola di Marano avesse il suo nome».
Il Comune di Marano nel 1998 ha intitolato una strada alla memoria di Salvatore Squillace

lunedì 11 giugno 2012

QUINDICI ANNI FA VENIVA UCCISA A NAPOLI SILVIA RUOTOLO

Salita Arenella, nel quartiere del Vomero, a Napoli. E’ quasi l’ora di pranzo. Un signora, si chiama Silvia Rutolo, porta per mano il figlioletto di cinque anni, Francesco Clemente. E’ andato a prenderlo a scuola. A casa c’è l’altra figlia, Alessandra, dieci anni. Il papà, Lorenzo, ingegnere, è al lavoro. Silvia è quasi arrivata a casa. Dal balcone Alessandra si affaccia e vede la mamma che la saluta con una mano, mentre con l’altra stringe quella del piccolo Francesco. Una scena comune a quell’ora e da quelle parti. Ci sono anche altre mamme che portano i figli a casa. All’improvviso si materializzano due auto con a bordo dei killer della camorra in missione di morte. Cinque persone in tutto. L’obiettivo è un boss di un clan avversario..  Proprio nel momento in cui passa Silvia con Francesco sparano a due giovani su una vespa. Un proiettile colpisce Silvia. Tutt’intorno si scatena un fuggi fuggi. La gente scappa dappertutto. Silvia no. Cade a terra stringendo ancora la mano di Francesco. Alessandra la vede dal balcone, Comincia ad urlare e poi a piangere. Francesco non si rende conto di cosa gi accade intorno. Ma la mano della sua mamma non la sente più. Lo lascia.  Francesco si spaventa. “Mamma, mamma”, grida il bambino mentre Silva perde i sensi. I killer riprendono a  sparare un po’ più in là, quando incrociano per davvero  il boss del clan nemico. Non si rendono conto che hanno sparato alla cieca e che una mamma  muore mentre stringe la mano del suo bambino.  Era l’11 di giugno del 1997.  Quindici anni fa. Un mese dopo viene catturato il killer, Rosario Privato. Dice di voler cambiare vita dopo aver ascoltato le parole del marito di Silvia, Lorenzo Clemente. Si pente. Parla. Racconta di quegli attimi.

Per tutta la giornata di oggi, al Vomero, in Piazza medaglie d’oro, nei giardini che portano proprio il nome di Silvia Ruotolo, si svolgeranno una serie di iniziative, promosse dalla Fondazione Silvia Ruotolo, presieduta da Alessandra Clemente, dal titolo: “Tutto ciò che libera e tutto ciò che unisce”. Ricorderanno Silvia e tutte le vittime innocenti della criminalità.

Il sito della Fondazione Silvia Ruotolo  http://www.fondazionesilviaruotolo.it/

sabato 9 giugno 2012

RIAPERTE LE INDAGINI SULL'UCCISIONE DI PIO LA TORRE E ROSARIO DI SALVO


Riaperta l'indagine sull'omicidio di Pio La Torre assassinato il 30 aprile del 1982, a Palermo insieme al suo collaboratore Rosario Di Salvo che guidava l'automobile. Lo ha deciso la procura di Palermo che ha accolto gli appelli lanciati da intellettuali e giuristi sull'ipotesi di possibili mandanti esterni al delitto. I pm, Antonio Ingroia e Ignazio De Francisci, vogliono anche approfondire una circostanza precisa: l'ipotesi che cinque professori universitari avrebbero dovuto studiare le carte che l'ex segretario regionale del Pci aveva detto di volere affidare a loro qualche giorno prima di morire. Ma La Torre non fece in tempo a consegnare i suoi appunti. Documenti che sosteneva il politico avrebbero fatto chiarezza su misteri come quello della strage di Portella della Ginestra e la «rete di rapporti tra mafia e Stato». La circostanza di questo mancato incontro con i professori è stata rilanciata scrivono il Giornale di Sicilia e La Stampa, anche in un libro, «Chi ha ucciso Pio La Torre», curato Paolo Mondani e Armando Sorrentino che fu avvocato di parte civile nel processo per il delitto per conto dell'allora Pds. Nel volume emerge anche la pista internazionale legate alle battaglie di La Torre contro l'installazione dei missili americani nella base di Comiso.

(Fonte: Ansa)

venerdì 8 giugno 2012

COMMEMORATI GLI AGENTI GIUSEPPE CARRETTA E FRANCO SAMMARCO VITTIME DEL TERRORISMO

Giuseppe Antonio Carretta e Franco Sammarco, assistenti della Polizia di Stato, furono uccisi a Roma in un agguato terroristico nelle prime ore della notte dell'8 giugno 1982. L'azione fu rivendicata dai Nuclei Armati Rivoluzionari, un gruppo di estrema destra. Componenti di una Volante del Commissariato Villa Glori in servizio di pattuglia, la notte dell'8 giugno 1982, i due poliziotti si apprestavano ad effettuare il controllo su un veicolo in sosta nei pressi dello Stadio Flaminio. Vennero improvvisamente aggrediti dagli occupanti dell'auto, che dopo averli immobilizzati e disarmati, li «giustiziarono» con dei colpi d'arma da fuoco alla nuca. L'attentato fu rivendicato dal gruppo eversivo «Nuclei armati Rivoluzionari» (Nar). con l'assassinio dei due poliziotti vollero vendicare un loro militante che si era suicidato un mese prima e che invece a loro parere era stato ucciso da alcuni agenti di Polizia. Le indagini successive consentirono alla Polizia di individuare i responsabili del duplice omicidio che risulteranno appartenere al gruppo eversivo che aveva rivendicato l'agguato. Questa mattina, il Vicario del Questore di Roma, dr. Carmine Belfiore, ha ricordato il contributo della Polizia di Stato nella lotta al terrorismo in occasione della cerimonia per la commemorazione del 30° anniversario della loro morte. A nome del Capo della Polizia, Prefetto Antonio Manganelli, il Vicario del Questore ha deposto una corona di alloro sulle lapidi collocate presso il Commissariato Villa Glori dove prestavano servizio i due dipendenti. Il Vicario del Questore ha ricordato quanto sia ancora vivo il ricordo delle vite umane sacrificate nel corso degli anni per i valori dello Stato e in difesa delle istituzioni democratiche per contrastare la strategia della lotta armata. Momenti difficili del nostro paese in cui le istituzioni hanno offerto il loro tributo di sangue nelle fila degli appartenenti alle forze di Polizia per garantire e tutelare l'ordine e la sicurezza, e quei valori per i quali l'Assistente Carretta e l'Assistente Sammarco si sono battuti. Alla cerimonia hanno partecipato Autorità civili e militari, nonché i familiari ed i colleghi delle vittime.
Google