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mercoledì 21 ottobre 2015

RICORDATO A TAURASI CIRIACO DI ROMA, IL POLIZIOTTO UCCISO DAI NAR IL 21 OTTOBRE 1981



Ciriaco di Roma
E' stato ricordato stamattina nella chiesa del Rosario di Taurasi, l'agente di Polizia Ciriaco di Roma, ucciso dai Nar ad Acilia il 21 ottobre del 1981, insieme al capo della Digos di Roma, il capitano Francesco Straullu. Alla cerimonia, promossa dal Comune di Taurasi, hanno partecipato i  familiari dell'agente Di Roma (il padre Vincenzo, la sorella Carmelina e il fratello Antonio), le associazioni dei finanzieri, dei poliziotti e carabinieri

La cerimonia è stata introdotta dal parroco, don Nicolino Di Stasio e dal vice sindaco Gerardo Mario Picariello a cui sono seguiti gli interventi della dirigente scolastica dell'Istituto comprensivo  "Teobaldo Caggiano", Antonella De Donno e del vice questore di Avellino,Vincenzo Massimo Modeo. 


Un momento della cerimonia
Gli alunni dell'Istituto Comprensivo "Teobaldo Caggiano", hanno letto  testi e recitato poesie in ricordo di Ciriaco di Roma. 

Al termine della cerimonia in chiesa, la famiglia Di Roma, ha consegnato un piccolo dono in danaro ad ogni classe dell'istituto comprensivo, come avviene da più di trent'anni.  Un corteo si è poi diretto al monumento che ricorda Ciriaco di Roma, per deporre  una corona di alloro.

Qui di seguito, alcuni stralci della storia di Ciriaco di Roma tratta dal mio libro "Come nuvole nere" edito da Melampo

Ponte Ladrone è uno dei viadotti più antichi di Roma. Si trova a nord di Acilia, sulla via Ostiense. A metà strada fra Roma e il Lido di Ostia, a poco più di quindici chilometri dalla capitale. Lo chiamano “Ponte Ladrone” perché qui i delinquenti dell’antichità aspettavano i viandanti per derubarli dei loro averi. Chissà quanta gente è rimasta uccisa nel corso dei secoli, colta di sorpresa, mentre passava da queste parti. È un posto strategico per tendere imboscate proprio per la sua conformazione. In quel tratto la strada si restringe e consente alle auto di transitare una alla volta ad andatura poco sostenuta. Per arrivarci da Acilia, si passa attraverso un breve tunnel. Superato il quale, si entra in aperta campagna dove all’improvviso si aprono davanti al viaggiatore distese di campi coltivati, prati e pascoli sui quali le greggi sembrano disegnare paesaggi che trasmettono sensazioni di tranquillità o che evocano scenari pittoreschi da oltre 2000 anni. Di fronte c’è uno spiazzo per sostare, attendere e anche confondersi, per chi vuole.

La mattina del 21 ottobre 1981, Ciriaco Di Roma, un agente di Ps in servizio alla Digos di Roma, quella strada la percorre due volte. Dalla caserma del Prenestino fino alla borgata di Casal Bernocchi e poi al ritorno, verso Roma. Si reca a casa del capitano Francesco Straullu, il nuovo capo della Digos della capitale. Straullu, un nuorese di 27 anni, è sposato da poco con una ragazza isolana, che ha la sua stessa età. Non hanno ancora bambini. Abitano a Casal Bernocchi, un quartiere di 60mila abitanti alla periferia di Roma, che è anche roccaforte di attivissimi gruppi neofascisti. Gli stessi che la Digos mette sotto i riflettori per cercare di bloccare sul nascere cellule militari che ammazzano ignari cittadini o esponenti delle forze dell’ordine. Il giovane capitano è diventato capo della Digos, suo malgrado, dopo che Alfredo Lazzarini, il suo superiore, è stato destituito dal Viminale per aver detto che nelle inchieste sul terrorismo nero c’era invischiato anche un tenente dei carabinieri.

 Ciriaco, che gli amici chiamano Ciro, ha 30 anni. Tre in più del suo capitano. Hanno sempre lavorato gomito a gomito negli ultimi anni. Si fidano ciecamente l’uno dell’altro. Ciriaco è originario di Taurasi, in provincia di Avellino e non è sposato. Da un po’ di tempo convive con una ragazza siciliana, Carmelina Biondi, trent’anni come lui. La sera, quando è di servizio, però, dorme in caserma, al commissariato del Prenestino. Esattamente come ha fatto la sera precedente di quel 21 ottobre (...)


(...) Ciriaco è il primo dei tre figli. È del il 20 agosto del 1951, si interessava di tutto in casa. Antonio tre anni in meno, è dell’aprile 1958, voleva fare il farmacista, ma poi si è arruolato in Finanza. Carmelina, che ha studiato al liceo classico, ha dieci anni in meno di Ciriaco, è nata a dicembre del 1960. Ha un marito e un figlio. È già sposata, nonostante abbia solo vent’anni. Ha fatto la classica fujtina. Ora con il figlio e il marito dorme sotto la baracca. Nei due giorni trascorsi a Taurasi, Ciriaco ha si è anche confidato con la sorella, che era preoccupatissima del clima di violenza che si respira nella capitale a causa della presenza dei gruppi di neofascisti. A casa nessuno sa del lavoro delicato che svolge Ciriaco a Roma. Solo Carmelina ne avverte la pericolosità. La contestazione studentesca è arrivata anche da queste parti. Conosce bene il significato della parola terrorismo. “Stai attento Ciriaco. Quelli non scherzano”, gli dice. Il fratello poliziotto cerca di non farla preoccupare. La coccola, la consola. Si rivolge a lei chiamandola “sosò”, un vezzeggiativo di “sorellina”. Per lui è sempre la piccolina della famiglia. La guarda negli occhi e con una carezza fraterna le fa capire che è consapevole del pericolo.

Ciriaco riparte per Roma il pomeriggio di martedì 20 ottobre, ma con il cuore gonfio di preoccupazioni per la sua famiglia che non sta vivendo un bel momento. Avrebbe bisogno di lui a Taurasi. Ma anche a Roma c’è altrettanto bisogno del poliziotto tenace che sa essere.

Il viaggio in auto col capitano prosegue tranquillo. Straullu lo tranquillizza: “Vedrai che un po’ alla volta le cose andranno tutte al loro posto e anche la tua famiglia uscirà dalla precarietà”. Ciriaco ammira molto il capitano, questo sardo tutto d’un pezzo che sa farsi rispettare nonostante la sua giovane età.

Sono passate le nove da qualche minuto. L’auto, la fiat Ritmo rossa, esce dal tunnel per imboccare via Ponte Ladrone. È il tratto dove le auto rallentano la corsa, proprio sotto il ponte della ferrovia Roma-Ostia. Sullo slargo di fronte, ci sono delle auto ferme e alcune persone. Tra loro una donna. Aspettano proprio i due militari: il capitano Franco Straullu e l’agente Ciriaco di Roma. Una vedetta avvisa il gruppo che l’auto con a bordo gli uomini della Digos è in arrivo. Appena la Fiat Ritmo rossa esce dalla galleria, le persone in attesa si allertano. Spuntano fuori delle armi. Sono armi pesanti, armi da guerra. Riescono a sfondare anche i vetri e la carrozzeria di una vettura blindata. Invece l’auto su cui viaggiano i due poliziotti è una semplice Fiat Ritmo. Pochi istanti dopo, i sette, appostati come i ladroni dell’antichità, lanciano due candelotti fumogeni per impedire la visibilità ai poliziotti e cominciano a sparare. L’auto diventa un bersaglio facile. Gli assalitori usano armi con proiettili dagli effetti devastanti, capaci di far saltare in aria l’intera autovettura. Da pochi metri nessuno può sbagliare il tiro. Una pioggia di colpi mortali si scarica sull’auto con dentro Ciriaco di Roma e il capitano Straullu. Sparano con un fucile automatico leggero, in dotazione alle forze Nato e all’esercito italiano (FAL), capace di lanciare proiettili di 10 centimetri. L’altra arma è una mitraglietta M-12, calibro 9 parabellum, che hanno in dotazione i corpi di polizia e quelli di sicurezza, e una pistola 7,65 e Winchester. Il lunotto anteriore della Fiat Ritmo va in mille pezzi. Ciriaco è colto di sorpresa. L’auto sbanda. La gragnuola di colpi investe in pieno i due agenti. Dal lato sinistro arriva un’altra raffica di colpi. Anche il capitano Straullu non ha il tempo di reagire. I colpi invadono l’abitacolo e squarciano i corpi dei poveri agenti. Si conteranno circa 50 colpi, ma tutti micidiali e pesanti. L’auto si mette di traverso la strada mentre sale sopra il marciapiede, sbatte contro una recinzione di ferro. Si ferma. Si accartoccia. Sembra la scena violenta di un film. Invece è tutto vero. È un’azione militare di guerra, ma di una guerra non dichiarata. Nessun colpo è andato a vuoto. Tutti sparati addossi ai due agenti. Neanche l’auto blindata li avrebbe salvati. È un agguato che non lascia scampo. Dentro l’abitacolo i corpi di Ciriaco di Roma e Franco Straullu sono privi di vita (...).

(...) A sparare ai due agenti della Digos, c’erano: Gilberto Cavallini, Alessandro Alibrandi (figlio del magistrato Antonio Alibrandi, giudice istruttore presso il tribunale di Roma) e Francesca Mambro, l’unica donna ammessa nel gruppo di fuoco che aveva già partecipato a numerosi raid armati contro esponenti delle forze dell’ordine. Sarà lei a dare anche il colpo di grazia al capitano Straullu. Un colpo che renderà irriconoscibile il corpo del giovane capitano sardo. L’obiettivo dei terroristi era quello di sfregiarlo, come segno di disprezzo e per compiere una vendetta senza precedenti. Cavallini aveva portato con se una lancia dei nativi americani, proprio come simbolo della vendetta da mettere in atto. Ma la fucilata sparata a bruciapelo in faccia, gli fa saltare la testa. A quel punto lo sfregio è ben visibile. Tanto che il medico legale nell’autopsia scriverà: “La morte di Straullu è stata causata dallo sfracellamento del capo e del massiccio facciale con spappolamento dell’encefalo”. Il corpo del capitano Straullu non riusciranno nemmeno a ricomporlo. I colleghi d’ufficio per confermare che il corpo fosse suo, lo capiranno solo attraverso il tesserino di riconoscimento. Ciriaco di Roma, invece, viene colpito da sette proiettili. Il corpo è ancora integro. Il medico legale accerterà che la sua morte è avvenuta “per la ferita a carico del capo con frattura del cranio e lesioni al cervello”. La sua salma verrà ricomposta ed esposta nella bara durante i funerali. 

mercoledì 18 febbraio 2015

TREDICI ANNI FA VENIVA UCCISO FEDERICO DEL PRETE. IL FIGLIO GENNARO INSIEME A MASSIMILIANO NOVIELLO FONDA START UP PER RICORDARE IL PADRE


GENNARO DEL PRETE
Tredici anni fa la camorra ammazzava a Casal di Principe il sindacalista degli ambulanti, Federico del Prete. Aveva denunciato il racket delle buste di plastica alla fiera settimanale di Mondragone. E per questo venne ucciso.  Ora il figlio Gennaro, insieme a Massimiliano Noviello, figlio di Domenico, altra vittima innocente della criminalità, ucciso dai killer del gruppo di Giuseppe Setola,  fonda una start-up per la distribuzione di buste biodegradabili e compostabili. Una sorta di legge del contrappasso dove Gennaro e Massimiliano, accomunati da un destino infame, provano a scrivere una pagina nuova della loro vita, dando vita ad una cooperativa sociale che porterà avanti questo progetto.
La startup ha già avuto il riconoscimento dell’ASIPS, l’azienda speciale della Camera di Commercio di Caserta e tra pochi giorni verrà costituita davanti ad un notaio la cooperativa sociale che porterà avanti l’iniziativa.
“Per la nostra iniziativa imprenditoriale – dice Gennaro del Prete - Sono già stati stretti accordi con la Novamont, l’azienda che produce materiali biodegradabili, per il supporto alla distribuzione e con diverse Amministrazioni Comunali  per l'utilizzo dei sacchetti per la raccolta delle frazioni organiche delle raccolte differenziate. Credo che faremo sicuramente bene. Inoltre c'è il supporto delle reti antiracket FAI ed SOS Impresa. E’ una idea innovativa, perché le buste che sono in circolazione per l’80 per cento non sono a norma”.

MASSIMILIANO NOVIELLO
La sera del 18 febbraio 2002, Federico del Prete era nel suo piccolo ufficio, in via Baracca. Una stanza a piano terra e con una porta a vetri. Faceva freddo. Circolava poca gente per le strade.  Ai muri dell’ufficio qualche manifesto del sindacato. Una piccola bacheca per gli appuntamenti. E dietro le sue spalle un crocifisso appeso. Fuori l’ufficio una targa con la scritta Snaa, il sindacato dei commercianti ambulanti, i “mercatari”, come si chiamano tra loro. Mancava qualche minuto alle 19,30.  Federico era al telefono. Una telefonata concitata. Il giorno dopo doveva andare a testimoniare in un processo contro un vigile urbano di Mondragone. Federico aveva denunciato il racket delle buste di plastica. E in quel periodo temeva per la sua vita. La porta dell’ufficio non era chiusa. Mentre continuava a parlare al telefono, una persona entrò di botto. Aveva in mano una pistola calibro 7,65. Federico lo guardò. Restò impietrito. Capì che era un killer della camorra. Da qualche settimana aveva cominciato a temere seriamente per la sua vita. Ebbe appena il tempo di rendersi conto di ciò che stava per accadere. Poi, cinque colpi in rapida successione lo colpirono allo stomaco e al torace, lasciandolo per terra, senza vita. Pochi attimi e il killer girò le spalle. Due passi veloci ed era sulla strada. Scappò insieme ai suoi complici. Così moriva Federico del Prete.
  
FEDERICO DEL PRETE
“L’impresa che è nata è frutto anche delle denunce di mio padre  – dice Gennaro del Prete – è un’idea che ho partorito in una notte insonne. La mattina dopo ne ho parlato con Massimiliano Noviello, che conosco da tempo, e con il quale mi accomuna un tragico destino.  Lui ha detto subito di si. Papà sarebbe orgoglioso di questa iniziativa”. 


Federico del Prete verrà ricordato stasera in due diverse iniziative: alle 17 a Frattamaggiore,  nella sala consiliare del Comune del suo paese di origine, per iniziativa del Comune e a Casal di Principe alle ore 18, dove il Comitato don Diana e Libera porteranno dei fiori in via Baracca, sul luogo  dove fu ucciso.

domenica 25 gennaio 2015

UNA SCUOLA INTITOLATA AD ATTILIO ROMANO' A DIECI ANNI DALLA SUA UCCISIONE

IL 24 GENNAIO 2005 ATTILIO ROMANO' VENIVA UCCISO DALLA CAMORRA NEL SUO NEGOZIO DI TELEFONIA A MIANO. VITTIMA DELLA FAIDA DI SCAMPIA TRA IL CLAN DI LAURO E GLI SCISSIONISTI. FU SCAMBIATO PER UN'ALTRA PERSONA.

IL 24 GENNAIO 2015 L'ISTITUTO IPSIA DI MIANO E' STATO INTITOLATO AD ATTILIO ROMANO' ALLA PRESENZA DI DON LUIGI CIOTTI CHE HA COMMOSSO TUTTI CON LE SUE PAROLE, RIVOLGENDOSI INNANZITUTTO AI NUMEROSI STUDENTI PRESENTI E AI FAMILIARI DI ATTILIO, RITA, MARIA E NATALIA:

"“La prima riforma da fare in Italia è un autoriforma: è la riforma delle nostre coscienze. E’ vero che Attilio non c’è più, ma in realtà per noi è ancora vivo, ed è una meraviglia che una scuola porti il suo nome. Nino Caponnetto diceva: La mafia teme più la scuola che la giustizia. L’istruzione toglie l’erba sotto i piedi alla cultura mafiosa. Oggi il nome di Attilio dà un valore in più, dà una bella pedata a questa scuola perché continui ad allenare alla vita, alla responsabilità. Nella consapevolezza che prima di tutto ci sta la dignità umana, non ci sta la legalità, ma la dignità umana. E noi siamo qui nel nome della dignità umana. E allora dobbiamo sentire vivo Attilio. 


Sentiteli vivi i nostri cari, per costruire attorno a noi la vita, perché la camorra sia sconfitta e vinca davvero la vita. E perché vinca la vita c’è bisogno che ognuno si assuma la propria parte di responsabilità. Posso dire che solo una parte della vita di Attilio è stata interrotta dalla violenza camorrista. Attilio continua a vivere degli altri, così come per gli altri ha vissuto. E quel ritratto che emerge dalle sue poesie, dalle parole di chi gli è stato vicino, testimone di una persona sensibile profonda affamata di vita. Auguro a tutti voi ragazzi di affamarvi di vita”.

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