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giovedì 30 agosto 2012

TONINO ESPOSITO FERRAIOLI, SINDACALISTA DELLA CGIL. DOPO 34 ANNI ASPETTA ANCORA GIUSTIZIA


 Tonino Esposito Ferraioli il 30 agosto del 1978  aveva 27 anni. Lavorava alla FATME di Pagani. Faceva il cuoco ed era iscritto alla Cgil. Tonino era uno di quelli tosti. Perciò quando vide che qualcosa non andava alla carne che in fabbrica veniva fatta mangiare agli operai, Tonino si ribellò. Denunciò. Voleva tutelare la salute dei suoi compagni che quella carne di scarsa qualità certo non la meritavano. Ma nell’agro Nocerino-sarnese  gli imprenditori avevano deciso che le proteste degli operai non si risolvevano attraverso la mediazione del sindacato ma con l’intervento delle bande della camorra. Un’interpellanza parlamentare del deputato del PCI, Giuseppe Amarante, del 14 luglio 1980, mette assieme tutti gli episodi di quegli anni: l’uccisione appunto del sindacalista comunista della Fatme Esposito Ferraioli; l’aggressione di sindacalisti in una azienda agricola del Cilento; le intimidazioni agli edili del cantiere Maniglia di Nocera Inferiore; l’aggressione a braccianti nella piana del Sele; l’incendio dell’automobile di un lavoratore a San Marzano sul Sarno. Questi episodi si intensificano, in modo preoccupante, nel 1979, anno nel quale si verificano il ferimento, a colpi di pietra, del sindacalista Giordano, in un cantiere edile nel quale il padrone usa anche armi da fuoco; anno nel quale, nel corso di una vertenza sindacale in una struttura alberghiera, viene aggredito il sindacalista Cilento, segretario della camera del lavoro di Vallo della Lucania; o, ancora, anno nel quale si ha la presenza di decine di delinquenti, anche armati, i quali, al conservificio Feger di Angri, impediscono, con minacce e violenze, prima uno sciopero e poi persino la distribuzione di volantini sindacali; infine, sempre ad Angri, dove al calzaturificio Moscariello si hanno violenze padronali contro lavoratori e sindacalisti; vi sono poi, sempre nello stesso comune, i fatti accaduti al conservificio Vaccaro e al conservificio De Gregorio, o quelli accaduti nel vicino comune di Scafati al conservificio Chiavazzo». L’onorevole Femiano Crucianelli, intervenendo nel dibattito nello stesso giorno alla Camera dei Deputati, aggiungerà: «[...] Ci troviamo di fronte ad una sequela di fatti che, anche riletti oggi, fanno pensare ad un vecchio film americano che si chiamavaMassacrateli tutti senza pietà”. Quel vecchio film era la storia dell’inizio della formazione del sindacato in America, e rappresentava tutte le violenze che i lavoratori americani subivano negli scontri sul posto di lavoro…».
La sera del 29 agosto del 1978 Tonino era dalla sua fidanzata, Angela. Scese di casa attorno alla mezzanotte. Angela abitava in via Zito a Pagani. Tonino si recava da Angela ogni sera.  Dovevano sposarsi di li a poco. Lo aspettarono che scendesse per sparargli  un colpo di lupara nell’oscurità, come vigliacchi.
«L’omicidio di Antonio Esposito Ferraioli», affermò il sottosegretario Sanza nel dibattito alla Camera il 14 luglio 1980, «è ritenuto opera del pregiudicato Salvatore Serra e della sua banda, noti per aver imposto con minacce ed attentati dinamitardi il loro controllo su molte aziende industriali della zona». Alcuni anni dopo la morte di Tonino fu avviato un processo a carico di Giuseppe De Vivo, pregiudicato paganese, e di Aldo Mancino, imprenditore ed ex amministratore comunale Dc di Pagani. Il processo era nelle mani del sostituto procuratore Nicola Giacumbi. Lo stesso che sarebbe stato ucciso dalle Brigate Rosse. All’inizio degli anni ’90, furono prosciolti tutti e due gli indagati. Nel 2002 il pm antimafia Vito Di Nicola ha chiesto di riaprire l’indagine. Dopo 34 anni sono ancora impuniti i mandanti e gli esecutori dell’omicidio di Tonino. Non è giusto.

mercoledì 29 agosto 2012

LIBERO GRASSI L’IMPRENDITORE CHE NON SI PIEGO’ ALLA MAFIA

La vernice rossa spruzzata sul marciapiede, con accanto due mazzi di fiori. E le corone di Comune e Regione appoggiate al muro. È stato ricordato così anche quest'anno l'imprenditore palermitano Libero Grassi, ucciso il 29 agosto di 21 anni fa in via Alfieri da Cosa nostra per essersi opposto al pizzo. La figlia Alice ha incollato, come fa da vent'anni, un manifesto scritto a mano su cui si legge: «Qui è stato assassinato Libero Grassi, imprenditore, uomo coraggioso, ucciso dalla mafia, dall'omertà dell'associazione degli industriali, dall'indifferenza dei partiti, dall'assenza dello Stato». Presente la vedova dell'imprenditore, Pina Maisano Grassi, i figli Davide e Alice, il Procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso, il Prefetto Umberto Postiglione, il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, gli assessori regionali Andrea Vecchio e Marco Venturi, l'ex assessore Giosuè Marino e altri rappresentanti delle istituzioni. Una cerimonia sobria, alla presenza anche dei giovani di Addiopizzo che indossavano la maglietta dell'associazione.


Libero Grassi ebbe il coraggio di pubblicare una lettera “al Caro estortore” sul Giornale di Sicilia il 10 gennaio del 1991. Si espose ulteriormente con la sua partecipazione a trasmissioni televisive come “Samarcanda” dove amplificò ulteriormente le sue denunce, invitando anche altri imprenditori a ribellarsi alla mafia. Ecco il testo della lettera apparsa sul Giornale di Sicilia.


“Caro estortore,
volevo avvertire il nostro ignoto estortore di risparmiare le telefonate dal tono minaccioso e le spese per l’acquisto di micce, bombe e proiettili, in quanto non siamo disponibili a dare contributi e ci siamo messi sotto la protezione della polizia. Ho costruito questa fabbrica con le mie mani, lavoro da una vita e non intendo chiudere… Se paghiamo i 50 milioni, torneranno poi alla carica chiedendoci altri soldi, una retta mensile, saremo destinati a chiudere bottega in poco tempo. Per questo abbiamo detto no al “Geometra Anzalone” e diremo no a tutti quelli come lui.“

Il giorno dopo la sua morte, sulle pagine Corriere della Sera apparve una nuova lettere di Libero Grassi:

“La “Sigma” è un’azienda sana, a conduzione familiare. Da anni produciamo biancheria da uomo: pigiami, boxer, slip e vestaglie di target medio-alto che esportiamo in tutta Europa. Abbiamo 100 addetti: 90 donne e 10 uomini. Il nostro giro d’affari è pari a 7 miliardi annui. Evidentemente è stato proprio l’ottimo stato di salute dell’impresa ad attirare la loro attenzione. La prima volta mi chiesero i soldi per i “poveri amici carcerati”, i “picciotti chiusi all’Ucciardone”. Quello fu il primissimo contatto. Dissi subito di no. Mi rifiutai di pagare. Così iniziarono le telefonate minatorie: “Attento al magazzino”, “guardati tuo figlio”, “attento a te”. Il mio interlocutore si presentava come il geometra Anzalone, voleva parlare con me. Gli risposi di non disturbarsi a telefonare. Minacciava di incendiare il laboratorio. Non avendo intenzione di pagare una tangente alla mafia, decisi di denunciarli.
Il 10 gennaio 1991 scrissi una lettera al “Giornale di Sicilia” che iniziava così: “Caro estortore…”.
La mattina successiva qui in fabbrica c’erano dei carabinieri, dieci televisioni e un mucchio di giornalisti. A polizia e carabinieri consegnai 4 chiavi dell’azienda chiedendo loro protezione. Mentre la fabbrica era sorvegliata dalla polizia entrarono due tipi strani. Dissero di essere “ispettori di sanità”. Fuori però c’era l’auto della polizia e avevano grande premura. Volevano parlare a tutti i costi con il titolare. Scesi e dissi loro che il titolare riceve solo per appuntamento e al momento era impegnato in una riunione. Se ne andarono. Li descrissi alla polizia e loro si accorsero che altri imprenditori avevano fornito le medesime descrizioni. Gli esattori del “pizzo”, i due che indifferentemente si facevano chiamare geometra Anzalone, altri non erano che i fratelli gemelli Antonio e Gaetano Avitabile, 26 anni. Furono arrestati il 19 marzo insieme ad un complice. Una bella soddisfazione per me, ma anche qualche delusione; il presidente provinciale dell’Associazione industriali, Salvatore Cozzo, dichiarò che avevo fatto troppo chiasso. Una “tamurriata” come si dice qui. E questo, detto dal rappresentante della Confindustria palermitana, mi ha ferito. Infatti dovrebbero essere proprio le associazioni a proteggere gli imprenditori. Come? È facile. Si potrebbero fare delle assicurazioni collettive. Così, anche se la mafia minaccia di dar fuoco al magazzino si può rispondere picche.


Ma anche a queste mie proposte il direttore dell’Associazione industriali di Palermo, dottor Viola, ha detto no, sostenendo che costerebbe troppo. Non credo però si tratti di un problema finanziario, è necessaria una volontà politica. L’unico sostegno alla mia azione, a parte le forze di polizia, è venuta dalla Confesercenti palermitana. Devo dire di aver molto apprezzato l’iniziativa SoS Commercio che va nella stessa direzione della mia denuncia. Spero solo che la mia denuncia abbia dimostrato ad altri imprenditori siciliani che ci si può ribellare. Non ho mai avuto paura ed ora mi sento garantito da ciò che ho fatto. La decisione scandalosa del giudice istruttore di Catania, Luigi Russo (del 4 aprile 1991) che ha stabilito con una sentenza che non è reato pagare la “protezione” ai boss mafiosi, è sconvolgente. In questo modo infatti è stato legittimato con il verdetto dello Stato il pagamento delle tangenti. Così come la resa delle istituzioni e le collusioni. Proprio ora che qualcosa si stava muovendo per il verso giusto. Stabilire che in Sicilia non è reato pagare la mafia è ancora più scandaloso delle scarcerazioni dei boss. Ormai nessuno è più colpevole di niente. Anzi, la sentenza del giudice Russo suggerisce agli imprenditori un vero e proprio modello di comportamento; e cioè, pagate i mafiosi. E quelli che come me hanno invece cercato di ribellarsi? Ora più che mai le Associazioni imprenditoriali che non si impegnano sinceramente su questo fronte vanno messe con le spalle al muro. La risposta infatti deve essere collettiva per spersonalizzare al massimo la vicenda.

venerdì 10 agosto 2012

LE STELLE CADONO ANCHE PER RICORDARE GIGI E PAOLO

Dodici anni. Tanti ne sono passati dalla notte di San Lorenzo del 10 agosto del 2000, quando Gigi Sequino e Paolo Castaldi, due ragazzi di Pianura che guardavano tranquillamente cadere le stelle nella notte di San Lorenzo,  furono uccisi da killer della camorra perché scambiati per guardiaspalle del boss Rosario Marra, genero di Pietro Lago, il capo dell’omonimo clan. Stavano progettando una vacanza insieme. Si conoscevano da piccoli. Le famiglie abitavano vicino. Dovevano andare in Grecia. Erano fermi in una macchina, una “Y10”, alla terza traversa san Donato, quando arrivarono i killer del clan Marfella-De Luca Bossa. Erano in quattro. Un paio scesero imbracciando le armi e facendo fuoco  all’interno della “Y10”. Gigi è Paolo non ebbero nemmeno il tempo di rendersi conto di ciò che stava accadendo. Si spensero  quasi subito. Il 19 dicembre 2004 gli inquirenti arrestarono Luigi Pesce, classe 1971, soprannominato ``Gigino 'o milanese''. Lo accusarono di essere uno dei componenti del commando di killer in azione il 10 agosto 2000. Nel processo per l’assassinio dei due giovani di pianura, lo stesso Pesce confermerà i fatti: Signor Presidente, io sono pronto a collaborare per dare giustizia ai genitori di questi ragazzi e chiedo scusa sia a loro che a tutta l'Italia per un duplice omicidio commesso per errore. Per l’uccisione dei due giovani di Pianura sono stati condannati all’ergastolo Eugenio e Pasquale Pesce. Gigi e Paolo avevano 20 e 21 anni. Gigi voleva fare l’aviatore. Si era iscritto alla facoltà di economia. Paolo lavorava in un supermercato al banco macelleria. Aveva una sensibilità non comune per gli animali. Si occupava di quelli abbandonati. Nessuno ha realizzato i propri sogni. Nella notte di san Lorenzo le stelle continuano a cadere. Il cielo  piange anche per loro.
 Per  ricordare Gigi e Paolo, stasera, venerdì 10 agosto 2012, alle ore 19, presso la Chiesa Vocazionario di Pianura (Cripta di Don Giustino), in via Parroco Russolillo, don Tonino Palmese, celebrerà una messa insieme a don Vittorio Zecconi.

mercoledì 8 agosto 2012

MARCINELLE. 262 MORTI PER UN TOZZO DI PANE. 56 ANNI FA LA TRAGEDIA DOVE MORIRONO 136 ITALIANI

L’esplosione avvenne l’8 agosto 1956 alle 8,10. In quel momento nella miniera di carbone del Bois du Cazier, a 975 metri di profondità, a Marcinelle, in Belgio, c’erano già a la lavoro 274 persone. Ne morirono  262 persone, di cui 136 italiani. Povera gente del sud Italia, partita con la valigia di cartone (chi ce l’aveva) e arrivati in Belgio giusto per un tozzo di pane. Provenivano soprattutto dalla Calabria, dall’Abbruzzo e dal Molise. La “catastrofa”, così come veniva ricordata dagli emigrati in un miscuglio di francese e dialetto, è una delle tragedie più gravi nella storia dell'emigrazione italiana. Gli italiani  erano andati a lavorare, come in molti altri siti della Vallonia, a seguito dell'accordo “uomo-carbone” tra Italia e Belgio del 1946. Come ogni anno, quel disastro - il terzo per numero di morti tra gli emigrati del nostro Paese, dopo quelli Monongah nel 1907 e di Dawson nel 1913, costati la vita rispettivamente a 171 ed a 146 italiani - verrà ricordato con una cerimonia nel sito dell'ex miniera di carbone al Bois du Cazier, nel comune di Charleroi, che il mese scorso, insieme ad altri tre siti minerari della Vallonia, è stato proclamato patrimonio universale dell'Unesco.
A provocare la “catastrofa”, quella mattina  dell'8 agosto del 1956, fu un carrello non perfettamente entrato nella gabbia di risalita tranciò una condotta d'olio, i fili telefonici e due cavi dell'alta tensione, provocando un pauroso incendio. L'allarme venne dato alle 8,25 da Antonio Iannetta, l'addetto alle manovre al livello 975 metri che riuscì a risalire in superficie. Le operazioni di soccorso, iniziate alle 8,58 con l'arrivo della prima squadra di soccorritori, si conclusero il 23 agosto alle 3 del mattino, quando, in italiano, un soccorritore sussurrò: «Tutti cadaveri».

Il 13 agosto vennero sepolte le prime vittime. Il 25, il ministro dell'Economia belga Jean Rey creò una commissione d'inchiesta, alla quale presero parte due ingegneri italiani, Francesco Caltagirone e Mario Gallina del Corpo delle Miniere Italiane. Anche la confederazione dei produttori di carbone avviò la propria inchiesta amministrativa. L'obiettivo era di fare luce su cosa fosse accaduto nel pozzo numero 1 di Marcinelle quel mattino dell'8 agosto del 1956. Nessuna di queste istituzioni, in realtà, mantenne pienamente le sue promesse. Il primo ottobre del 1959 il tribunale di Charleroi emise un verdetto di assoluzione per gli amministratori e i direttori della miniera: «Nessuno è responsabile della tragedia». L'anno seguente, dopo la reazione dell'opinione pubblica e della stampa italiana, nel processo d'appello venne condannato a sei mesi di carcere un ingegnere. Trovato un capro espiatorio, l'intera vicenda viene chiusa. In realtà, l'unico che avrebbe potuto raccontare come andarono esattamente le cose il giorno della tragedia era Iannetta, che nel novembre del 1956, dopo aver cambiato sette volte versione davanti ai magistrati, sparì. Le autorità belghe gli avevano dato il permesso di lasciare il Paese, a processo ancora in corso, e di volare in Canada, a Toronto, dove è morto 87enne, malato di Alzheimer, l'11 febbraio scorso.
Nel suo libro dedicato all'incidente di Marcinelle, «La catastrofa», Paolo Di Stefano scrive che il 25 settembre del 2000, Nino Di Pietrantonio, il figlio di una vittima, «bussa alla porta di una casetta a schiera di Bellwoods Avenue a Toronto. Gli apre Iannetta, che gli rivela varie cose: anzitutto che in quei giorni dell'estate 1956 un ingegnere aveva chiesto al minatore molisano di provocare un piccolo incidente, in modo da convincere l' amministrazione a chiudere quella 'maledettà miniera, poi che era stato un intervento diplomatico a permettergli di fuggire e che ancora percepiva un'entrata mensile extra-pensione senza riuscire a capire il perchè». Il tutto sarebbe stato un compenso all'uomo che si era assunto le responsabilità, non sue, dell'incidente. Incidente che mise tra l'altro in luce le condizioni di lavoro degli italiani, spediti in Belgio a seguito dell'accordo 'uomo-carbonè. In Italia, negli anni del dopoguerra, le risorse di carbone erano sempre più scarse, le potenze vincitrici lo lesinavano agli sconfitti e la produzione era pressochè nulla, ma vi era molta manodopera. In Belgio, invece, la situazione era all'opposto: ricchi di carbone, i belgi non volevano fare il lavoro del minatore, coscienti dei pericoli del lavoro in miniera, tra cui malattie come la silicosi.

Fu così che il premier belga Achile Van Acker, alla fine della guerra, lanciò la «battaglia del carbone», raggiungendo con l'allora presidente del Consiglio Alcide De Gasperi l'accordo firmato il 23 giugno del 1946, che prevedeva l'acquisto di carbone a fronte dell'impegno italiano di mandare 50mila uomini da utilizzare nel lavoro in miniera. Nell'intesa erano previsti, per quelli che vennero poi ribattezzati in maniera sprezzante «musi neri», per via della polvere di carbone che ricopriva il loro volto, un corso di formazione e la garanzia di un alloggio. Alloggi che si rivelarono poi essere delle squallide baracche di lamiera, le stesse usate dai nazisti durante la guerra come campi di concentramento e poi dagli alleati come campi di prigionia. Tra il 1946 e il 1957 arrivarono in Belgio 140mila uomini, 17mila donne e 29mila bambini. Mercoledì, come ogni 8 agosto - nel 2001 proclamata «Giornata nazionale del sacrificio del lavoro italiano nel mondo» - la campana «Maria mater orphanorum» al Bois du Cazier rintoccherà 262 volte, in ricordo dei minatori morti a Marcinelle, e altre 10 volte per i caduti in tutte le miniere del mondo. Infine, suonerà a distesa in omaggio alle vedove e agli orfani e per richiamare a raccolta la gente per ricordare quanto accadde in quel luogo. Alla cerimonia sarà presente il console italiano a Charleroi, Iva Palmieri.

sabato 4 agosto 2012

GAETANO MONTANINO. UCCISO MENTRE FACEVA IL PROPRIO DOVERE




E’ martedì 4 agosto 2009. Una serata calda come le altre, con la temperatura oltre i trenta gradi. In piazza mercato, a Napoli, alle due di notte, Gaetano Montanino, 45 anni, guardia giurata e dipendente dell’istituto “La vigilante”, è in auto con il suo collega, Fabio De Rosa, di 25 anni. Sono fermi davanti ad un negozio di giocattoli all’interno dell’auto di servizio. La zona è quasi deserta. Sembra tutto in ordine. Ma è una calma apparente, perché di lì a poco si scatenerà l’inferno. Un gruppo di giovinastri del quartiere, vicini al clan Contini, decide di rapinare le armi ai due vigilanti. Su uno scooter si avvicinano all’auto due di loro: Davide Cella e Salvatore Panepinto. Sono armati e con i volti coperti dai caschi: “Non vi muovete e dateci le pistole”, intimano i due giovani. Gaetano e Fabio sono colti di sorpresa. Si guardano in faccia e capiscono che la faccenda è seria. Fabio De Rosa consegna la sua pistola 9x21, Gaetano Montanino, invece, riesce a tirare la sua dalla fondina e fa fuoco. I due rapinatori reagiscono e sparano a loro volta. Sono attimi di terrore. L’aria calda e afosa della notte è squarciata dai colpi di pistola. Gaetano Montanino viene raggiunto da otto colpi di pistola. Muore subito. Fabio De Rosa è più fortunato, è ferito nonostante sei colpi di pistola. Uno dei due giovani aggressori, Davide Cella, rimane ferito a sua volta. Il complice riesce a rimetterlo sullo scooter e lo porta davanti al Loreto Mare. Fabio chiede aiuto i soccorsi attraverso la radio di servizio che è sull’auto. In pochi attimi sul posto giunge un ambulanza e volanti della polizia. Sarà importante la sua testimonianza per ricostruire i fatti. Davide Cella viene arrestato in ospedale e piantonato a pochi passi dalla stanza dov’è ricoverato anche Fabio De Rosa, guardato a vista dai suo colleghi. Dopo poco tempo viene arrestato l’altro complice, Salvatore Panepinto. Al processo per la morte di Gaetano Montanino, i due killer saranno condannati a soli vent’anni di carcere. Evidentemente per lo Stato tanto vale la vita di un uomo che muore facendo il proprio dovere.

mercoledì 1 agosto 2012

STRAGE DI BOLOGNA. BERSANI: "LA VERITA' SUI MANDANTI"



Trentadue anni fa la strage alla stazione di Bologna. Si conosce quasi tutto di quell’attentato, tranne i nomi dei mandanti. E quando si sta per arrivare vicini alla verità, ecco che arrivano anche i depistaggi. I parenti degli 85 morti e dei 200 feriti aspettano di sapere ancora il perché di quella strage. Sulla strage e sui tentativi di creare diversivi per allontanare i magistrati dalla pista giusta per arrivare ai mandanti, interviene anche il segretario del Pd, Pierluigi Bersani.


«Sono trascorsi 32 anni dalla strage di Bologna, ma è necessario ribadire l'impegno affinché la verità emerga nella sua interezza. La magistratura ha svolto il suo compito ed è arrivata a sentenze definitive, tuttavia continuano i tentativi di delegittimare il suo lavoro. Voglio dirti che noi faremo da argine al tentativo di inquinare l'esito dei processi. Resta da capire chi fossero i mandanti occulti e quali forze abbiano realmente operato per arrivare ad un esito non democratico della vicenda italiana». Lo scrive il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani in un messaggio a Paolo Bolognesi, presidente dell'Associazione dei parenti delle vittime in occasione del 32esimo anniversario della strage di Bologna che cade domani 2 Agosto. «Una strage - prosegue Bersani - che ferì al cuore Bologna e l'Italia intera. L'immagine dell'orologio della stazione fermo alle 10.25 resta nella memoria collettiva come il segno più drammatico di un evento che provocò la morte e il ferimento di tanti innocenti. Voi familiari chiedete legittimamente che le ombre siano diradate e che il segreto di Stato non impedisca di ricomporre ogni aspetto di una vicenda così importate e dolorosa per la nostra storia».


«Voglio garantirti ancora una volta - afferma Bersani - che il nostro impegno non verrà mai meno: sia per fare chiarezza sui lati oscuri della strage; sia per fare in modo che le vittime e i familiari vedano riconosciuti i loro diritti dal punto di vista previdenziale. È necessario, pur nella difficile congiuntura che stiamo attraversando, mettere in atto le norme di legge in vostro favore che sono state già approvate. Continueremo a sollecitare il Governo che, da parte sua, ha dato un segnale molto positivo tornando, dopo due anni di assenza, a prendere parte alla commemorazione in ricordo delle vittime della strage». «Nel ricordo di quelle vite innocenti lavoreremo per difendere la democrazia, per renderla forte e radicata nei sentimenti degli italiani. Perché le minacce non sono mai terminate e la strage di Bologna è un ammonimento a mantenere alta l'attenzione, a lavorare affinché la democrazia non deperisca e trovi la forza per rinnovarsi nel segno della fedeltà alle nostre radici costituzionali. Senso di giustizia e bisogno di verità ci spingono a chiedere allo Stato di fare la propria parte e a sostenere le vostre ragioni che sono le ragioni dell'Italia», conclude.


«La Strage di Bologna del 2 agosto 1980 fu uno degli attentati terroristici più gravi della storia del nostro Paese. Quella violenza inusitata, che voleva minare fin dalle fondamenta la democrazia e la Costituzione, provocò 85 morti e 200 feriti». Così il vice presidente del Senato Vannino Chiti alla vigilia del giorno in cui si ricorda la Strage di Bologna. «Il modo più giusto per rendere omaggio alle vittime innocenti e ai loro familiari è mantenere alta la memoria e fare finalmente piena luce sulla strage, sulle responsabilità individuali e sui mandanti. È importante il fatto che il governo, dopo due anni di assenza da parte dei rappresentanti di quello precedente, sia presente alla commemorazione della strage», conclude.

STRAGE BOLOGNA: ASS.GEORGOFILI A CANCELLIERI, SPERIAMO PORTI BUONE


«Speriamo che domani a Bologna il ministro Annamaria Cancellieri porti buone notizie». È l'auspicio dell'Associazione familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili in occasione del 32° anniversario della strage di Bologna, alla cui commemorazione prenderà parte il ministro dell'Interno per conto del governo. «Vogliamo significare la nostra vicinanza alle famiglie delle vittime e a quanti sono stati feriti nella strage stessa. L'anniversario della strage di Bologna è un giorno importante per l'Italia intera, perchè ricorda fortemente lo stragismo che ha insanguinato il Paese fino ai giorni nostri -si legge nella nota, a firma del presidente, Giovanna Maggiani Chelli-, è per noi sempre motivo di riflessione e ci porta ogni anno a far si che i nostri rappresentanti siano presenti a Bologna alle manifestazioni». «Quest'anno il nostro impegno e la nostra presenza a Bologna vorranno dire anche qualcosa in più , saremo portatori di denuncia per quella sciagurata trattativa fra uomini dello Stato e »cosa nostra« ai tempi delle stragi del 1993 , che in troppi si ostinano a negare malgrado ormai sentenze la sanciscano. Come altresì auspichiamo che il ministro dell'Interno -conclude la nota- sia foriera di buone notizie come ha anticipato per tutte le vittime del terrorismo in Italia».
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