Ricorre oggi il
22/mo anniversario dell'assassinio del giudice del Tribunale di Agrigento
Rosario Angelo Livatino, ucciso dalla mafia. Nella sua città, Canicattì, viene
ricordato per iniziativa dell' associazione d'impegno civico ed antimafia
«Tecnopolis» e di quella culturale «Amici del Giudice Rosario Angelo Livatino»
con una celebrazione eucaristica nella chiesa di San Domenico, in contrada
Gasena, luogo dell'agguato. L'omaggio avverrà presso la stele fatta erigere a
proprie spese, e con tanto di concessione edilizia, dagli anziani genitori del
magistrato di cui una anno l'Arcivescovo di Agrigento ha avviato il processo di
canonizzazione. Ad Agrigento sempre oggi prende il via il corso di formazione
organizzato dal Consiglio Superiore della Magistratura dedicato a giovani
magistrati e giovani avvocati sul tema «La tutela del lavoratore, tra novità e
revirements giurisprudenziali». Le iniziative proseguiranno nei prossimi giorni
con il programma della «Settimana della legalità in memoria dei giudici Saetta e
Livatino», che domani alle 10 nel Teatro Sociale di Canicattì prevede il
convegno «Non di pochi, ma di tanti. esempi, valori ed azioni per la democrazia
e la Giustizia», con monsignor Giovanni D'Ercole, il direttore della Dia Alfonso
D’Alfonso, Antonello Montante presidente di Confindustria Sicilia, Roberto
Scarpinato, procuratore generale di Caltanissetta, e don Giuseppe Livatino,
postulatore della causa di canonizzazione. (ANSA).

In questo blog, che ho chiamato “Dalla parte delle vittime”, racconterò storie e percorsi umani di vittime innocenti della criminalità organizzata e dei loro familiari. Delle iniziative per non dimenticare, del loro coraggio e di come hanno saputo trasformare la loro tragedia in un impegno collettivo per cambiare in meglio la nostra società. (raffaele sardo 20.7.2011)

venerdì 21 settembre 2012
lunedì 17 settembre 2012
QUATTRO ANNI FA LA STRAGE DI CASTEL VOLTURNO
Il 18 settembre
2012, ricorre il quarto anniversario della “strage di Castel Volturno” in cui
vennero uccisi dalla camorra sei immigrati ghanesi. La strage avvenne attorno
alle 21, in un negozio di sartoria, al km. 43 della domiziana. Fu un gruppo di 5
persone, capeggiate dal boss Giuseppe Setola, che riversò su 7 inermi cittadini,
oltre 125 proiettili di kalashnikov e mitragliatrici varie. Uno solo se la cavò,
Joseph Ayimbora, perché fece finta di essere morto. Grazie alla sua
testimonianza gli autori della strage sono stati condannati all’ergastolo.
Joseph Ayimbora è prematuramente scomparso lo scorso febbraio, per problemi di
cuore, ma anche per le gravi ferite alle gambe e all'addome. Aveva un permesso
di soggiorno dal 1998. La sua collaborazione con le forze dell'ordine fu
decisiva per la ricostruzione dei fatti e l'individuazione degli assassini. Il
“Comitato don Peppe Diana” ha lanciato una raccolta di firme da consegnare al
presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, per assegnare una medaglia
d’oro al merito civile a Joseph Ayimbora per il coraggio dimostrato nel
denunciare e poi testimoniare al processo contro il clan dei casalesi. La
raccolta firme, cominciata a giugno, con la rassegna del Festival dell’Impegno
Civile, ha già avuto centinaia di adesioni.
Intanto la
sentenza di primo grado, che ha accertato anche che Setola e i suoi uomini erano
spinti da un sentimento di avversione nei confronti di persone dalla pelle nera,
è stata impugnata dagli avvocati difensori degli imputati, compreso il capo
relativo alla aggravante dell’odio razziale.
Il 18 settembre
due appuntamenti ricorderanno la strage. Uno alle 9, presso il comune di Castel
Volturno, indetto dalle associazioni sindacali e di categoria che sono riuniti
attorno al Comitato antiracket “Mò basta!” (Consorzio Agrorinasce, Cgil,
Cisl, Uil, Camera di Commercio, Coldiretti, Cia, ecc.) e un’altra presso il
luogo della strage, alle per 11,30, indetta dalle associazioni di volontariato
che operano con i migranti (Padri comboniani, centro sociale ex canapificio,
Libera, Caritas, ecc.) qui il magistrato della DDA, Cesare Sirignano, terrà una
“lezione anticamorra”.
domenica 2 settembre 2012
I GIORNALISTI ITALO TONI E GRAZIELLA DE PALO, SCOMPARSI IN LIBANO IL 2 SETTEMBRE 1980, ASPETTANO ANCORA GIUSTIZIA
Se
fosse accaduto in Sicilia, sarebbe stato un caso di lupara bianca. Invece Italo Toni e
Graziella De Palo, due giornalisti, sono scomparsi in Libano il 2
settembre 1980. Da allora sono passati trentadue anni e della loro sorte non se
n’è saputo più nulla. E non sono annoverati tra le vittime che hanno avuto
giustizia. Sullo sfondo della loro scomparsa un intreccio di affari, misteri e
traffici di armi, inconfessabili. Uno scenario simile a quello in cui maturò
l’assassinio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Italo Toni e Graziella De Palo erano arrivati a Beirut il
22 agosto 1980, su invito del rappresentante romano dell’Olp, Nemer Hammad.
Esattamente dieci giorni prima di quel 2 settembre, per documentare le
condizioni di vita dei profughi palestinesi. Graziella, 24 anni, collaborava con
“Paese Sera” e “L’Astrolabio”, la testata fondata e diretta da Ferruccio
Parri. Aveva già pubblicato diverse inchieste sui
traffici di armi. Italo, invece, 50 anni, giornalista professionista, era
redattore dell’Agenzia “Notizie”. Erano partiti da Roma alla volta di
Damasco con un volo Syrian Arab
Airlines. Il visto d’ingresso era stato fornito dall’Olp, come pure il biglietto
aereo e l’ospitalità in un albergo di
Beirut. Erano giunti a Damasco la sera del 22 agosto, accolti da un
rappresentante locale dell'OLP. Si registrarono a Beirut in qualità di
giornalisti ospiti della resistenza palestinese. Stabilirono la loro base in un
albergo dell'organizzazione palestinese situato nella zona Ovest della capitale
libanese: l'hotel Triumph.
Italo
Toni, dopo qualche giorno, chiese di poter visitare le postazioni militari
palestinesi del Sud. Quelle più attive nella guerra contro gli israeliani. Ma
bisognava rivolgersi al "Fronte Democratico" di Nayef Hawatmeh (uno dei gruppi
minori che costituiscono l'organizzazione palestinese). La visita viene
organizzata per il 2 settembre. Il giorno prima i due giornalisti si recano
all'ambasciata d'Italia, per segnalare la loro presenza in Libano. Li riceve il
Primo Consigliere Tonini. Spiegano il motivo per cui sono in Libano e lo
informano che il giorno dopo saranno
accompagnati da esponenti del "Fronte Democratico", per la visita nelle zone più
calde della guerra. Italo Toni sa che quella visita può essere pericolosa,
perciò, dopo aver chiesto la protezione dell'ambasciata: raccomanda al
consigliere: "Se tra tre giorni noi non siamo rientrati in albergo date
l'allarme, venite a cercarci". "Sì, sì, senz'altro - risponde Tonini - Faremo di
tutto".
Solo
di fronte al rischio di un' incriminazione per falsa testimonianza, il generale
Santovito e poi il colonnello Stefano
Giovannone, uomo del sismi a Beirut, opposero il segreto di Stato, evitando così
di rivelare quali fossero i rapporti tra lo Stato italiano e i gruppi
palestinesi. Verrà
incriminato ufficialmente George Habbash per la scomparsa dei due giornalisti,
ma poi sarà assolto al processo. Quindi nessun colpevole per la scomparsa di
Italo e Graziella.
Nel frattempo, a dicembre nel 2009, la presidenza
del Consiglio ha deciso di rendere consultabili parte dei documenti che compongono il dossier
dei servizi segreti militari. Si tratta di 1000 pagine su 1200. Ma i
familiari di Graziella sono convinti che
anche quelle pagine non contengano la verità. Il fratello minore di Graziella, Fabio De
Paolo, intervistato da Repubblica il 17 dicembre del 2009, dichiara: "Non
vorremmo che questa svolta si riveli una vittoria di Pirro. Se i pregressi
rapporti tra Olp e Sismi continuano a prevalere sulla verità della scomparsa di
mia sorella, temo che avremo accesso solo ai documenti che ci vogliono fare
vedere. (…) A noi non interessa svelare o denunciare vecchi accordi
internazionali. Noi cerchiamo solo la verità. Dopo tanti misteri e tanti
depistaggi, ne abbiamo diritto. Vogliamo ancora credere nella giustizia".
sabato 1 settembre 2012
IL 3 SETTEBRE DI 30 ANNI FA, L'OMICIDIO DALLA CHIESA
Il 30 aprile del 1982 il generale Carlo
Alberto Dalla Chiesa, viene nominato Prefetto di Palermo. E' la sua terza volta
in Sicilia. C'era stato come giovane ufficiale dei Carabinieri nel 1949 a
combattere il separatismo di Giuliano di Montelepre e poi nel 1966 con il grado
di Colonnello, per combattere Cosa Nostra. Ora ci torna da Prefetto. Lo
ammazzeranno la sera del 3 settembre del 1982, esattamente dopo cento giorni di
permanenza nel capoluogo siciliano.
Quella sera il nuovo prefetto
di Palermo, insieme alla giovane moglie, Emmanuela Setti Carraro, trentadue
anni, aveva deciso di uscire per andare a cena. Erano pochi i momenti intimi
vissuti in quei mesi concitati nella lotta contro la mafia. Era stato fatto
tutto così in fretta. Carlo Alberto fu nominato prefetto di Palermo sull’onda
emotiva dell’uccisione del segretario regionale del Pci, Pio La Torre. Poi il
matrimonio, il 12 luglio dello stesso anno, e dunque il trasferimento a Palermo.
E poi l’isolamento in cui si era venuto a trovare il prefetto. Lo aveva
denunciato anche attraverso i giornali in una intervista a Giorgio Bocca sulle
colonne del quotidiano «la Repubblica». Emmanuela quella sera lo voleva tutto
per sé il generale. Tanto che si mise a guidare lei l’auto, come per dire:
«Stasera esisto solo io». Era una delle poche volte che poteva godersi il
marito.
Normalmente le sue giornate il
prefetto le cominciava alle sette del mattino e le finiva dopo la mezzanotte. A
fargli da scorta c'era Domenico Russo, “Mimì”, faceva da autista e da scorta al
generale. Era l’unico agente di scorta perché all’epoca non esisteva un servizio
come quello di adesso. E l’auto non era nemmeno blindata. A scortare il prefetto
ci doveva essere uno dei suoi uomini di fiducia, un giovane carabiniere di
Marano, Gennaro Nuvoletta. Ma aveva ritardato la il suo arrivo a Palermo perché
il 2 luglio dello stesso anno, la camorra aveva ucciso a Marano il fratello,
Salvatore Nuvoletta, 20 anni, anche lui carabiniere in servizio a Casal di
Principe.
Uscirono da villa Whitaker,
dov’è ospitata la prefettura, attorno alle ventuno. Dietro di loro si avviarono
anche due auto e una moto. Una Bmw, una Fiat 132 e una moto Suzuki. In quelle
macchine c’erano gli uomini che alcuni minuti dopo li massacreranno a colpi di
mitra. Alle ventuno e quindici, in via Isidoro
Carini, i sicari si materializzano. Affiancano l’A112 con dentro il generale e
la moglie Emmanuela Setti Carraro e un’altra auto affianca l’Alfetta guidata da
Domenico Russo. I kalashnikov cominciano a crepitare. Emmanuela è colpita.
L’auto sbanda. Finisce la corsa vicino ad un marciapiede. Per lei e per il
generale non c’è più niente da fare.
Anche per Mimì, sventagliate
di kalashnikov. Piovono proiettili. Per lui entra in azione la motocicletta che,
secondo i pentiti, era guidata da Pino Greco, detto “Scarpuzzedda”. La sua auto
va a sbattere
dietro la A112 con dentro i corpi del generale e della moglie. Mimì scende
dall’auto per difendere il prefetto e la giovane consorte. Si rende subito conto
che il gruppo di fuoco era troppo numeroso e con la sua pistola d’ordinanza
avrebbe potuto fare ben poco. Nonostante ciò, non esitò a sparare e a cercare di
fermare i killer. Non resistette a lungo. Il volume di fuoco che misero in campo
i mafiosi ebbe subito ragione del povero agente scelto. In due minuti il
massacro era compiuto.
I killer si fermano. Volevano
essere certi che il prefetto rompiscatole, la moglie e il carabiniere di scorta
fossero morti. Nel giro di pochi minuti è tutto finito. Le auto dei killer
partono a tutta velocità. Le troveranno poco dopo incendiate e quasi
irriconoscibili. Domenico Russo, però, non è morto, è ferito gravemente.
Trasportato in ospedale, i medici lo dichiareranno clinicamente morto. Morirà
dopo tredici giorni di agonia.

Carlo Alberto Dalla
Chiesa lo aveva capito. A sue spese purtroppo. Il 10 agosto in un'intervista a
Giorgio Bocca, l'ultima, disse: «Credo di aver capito la nuova regola del gioco:
si uccide il potente quando avviene questa combinazione fatale, è diventato
troppo pericoloso, ma si può uccidere perchè è isolato». Lui era partito per
Palermo il giorno stesso (30 aprile 1982) in cui la mafia aveva ucciso Pio La
Torre, segretario siciliano del Pci. Era arrivato con procedura d'urgenza perchè
lo Stato aveva scelto lui per combattere la battaglia contro Cosa nostra. Non
era la sua prima volta in Sicilia. Il generale c'era già stato nel 1949 da
giovane ufficiale con l'incarico di comandante del gruppo squadriglie delle
Forze Repressione banditismo di Corleone (Palermo). Agli ordini del generale Ugo
Luca, fu impegnato nella durissima guerra contro il bandito Giuliano di
Montelepre e in dieci mesi di lotta al banditismo riuscì a scompaginare e
debellare numerosi gruppi criminali. Un impegno importante che gli valse una
Medaglia d'argento al valor militare. A Corleone ereditò tra l'altro, 64
indagini su omicidi ad opera di ignoti, fra cui quello di Placido Rizzotto,
segretario della Camera del Lavoro, scomparso il 10 marzo del 1948. Dalla Chiesa
giunse ad indagare e incriminare, per primo, l'allora boss emergente Luciano
Liggio.
Dal 1966 al 1973
tornò nell'Isola con il grado di colonnello, al comando della legione
carabinieri di Palermo. Furono gli anni dello scontro interno tra le famiglie
mafiose per la conquista del potere e dei morti eccellenti. Dalla Chiesa si
trovò ad indagare sulla misteriosa scomparsa del giornalista Mauro De Mauro,
sulla morte del procuratore Pietro Scaglione. Il risultato di queste indagini fu
il dossier dei 114, nel quale si fecero per la prima volta i nomi di Gerlando
Alberti e Tommaso Buscetta come elementi centrali di molti fatti di sangue,
oltre che quelli di Luciano Liggio e Michele Greco. Scattarono così decine di
arresti di boss. Nel 1982 il Consiglio dei ministri lo nominò prefetto di
Palermo. È lui l'uomo chiave in grado di vincere la sfida contro Cosa nostra che
aveva ripreso ad insanguinare le strade di Palermo. L'allora ministro Virginio
Rognoni lo convinse: per combattere la sua battaglia contro i boss avrebbe avuto
poteri speciali. Ma le promesse rimasero tali. «Mi mandano in una realtà come
Palermo con gli stessi poteri del prefetto di Forlì» disse amareggiato. La lotta
a Cosa nostra doveva essere fatta strada per strada, lo Stato doveva far sentire
la sua presenza, servivano uomini e mezzi. Eppure nonostante la carenza di
risorse il generale dei cento giorni elaborò una sorta di mappa dei boss della
nuova mafia: è il rapporto dei 162. Poi iniziò una lunga serie di arresti, di
indagini, anche in collaborazione con la Guardia di Finanza, per appurare
eventuali collusioni tra politica e Cosa nostra. È la sua condanna a
morte.
«Qui è morta la
speranza dei palermitani onesti» recitava una scritta comparsa il giorno
seguente vicino al luogo dell'eccidio. «Da allora di strada se ne è fatta tanta
- dice Nando Dalla Chiesa- Molti hanno contribuito a farla dalla società civile
alle associazioni, dall'Università a Confindustria. Oggi non è più un tabù
parlare di mafia. Eppure questi stessi passi avanti non si vedono nel mondo
politico. Per una parte della politica - denuncia - la mafia non è un problema,
ma al contrario una risorsa. C'è una contrattazione continua, come in un grande
mercato in cui scambiano voti e favori. Credo - dice amaramente - che se i
politici avessero nel contrasto a Cosa nostra la stessa spinta che hanno nel
mantenimento delle proprie posizioni di privilegio, nell'interesse per la legge
elettorale, oggi avremmo completamente debellato la mafia. Purtroppo non è così
e Cosa nostra non viene vista come un problema di sopravvivenza». Nell'ambito
delle celebrazioni per ricordarlo in occasione del trentennale della sua
uccisione a Corleone (Palermo) è stata scoperta una targa. Alla cerimonia,
organizzata dal Comando Legione Carabinieri Sicilia e dalla Prefettura di
Palermo, hanno partecipato le massime autorità civili e
militari.
Dino Russo, il
figlio di Domenico, l’agente di scorta di Dalla Chiesa: «A Palermo erano
certi che sarebbe successo, tutti si aspettavano quello che poi è accaduto. Si
può dire che in qualche modo il destino di Dalla Chiesa era segnato. La mafia,
che lo ha ucciso insieme a mio padre, c'è ancora oggi anche se ha abbandonato la
tattica stragista. La verità è che c'è ancora tanto da fare prima di poter dire
di avere vinto la battaglia contro cosa nostra». Dino Russo, figlio di Domenico,
capo scorta di Carlo Alberto Dalla Chiesa, ripercorre con l'Adnkronos gli attimi
seguiti alla strage di via Carini, che vide il prefetto di Palermo Carlo Alberto
Dalla Chiesa, la moglie Emanuela Setti Carraro e l'agente Domenico Russo morire
sotto i colpi dei killer mafiosi. «All'epoca ero un bambino, lo venni a sapere
dal telegiornale. Dalla Chiesa era un grande uomo, che ha sconfitto le Brigate
Rosse, una persona di cuore. Era deciso a contrastare la mafia, di certo
-rileva- lui e mio padre si sarebbero opposti a qualsiasi eventuale ipotesi di
trattative con la mafia da parte delle istituzioni».
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