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giovedì 15 dicembre 2011

LUIGINO CANGIANO, UCCISO COI SUOI SOGNI A SOLI 10 ANNI

La storia di Luigino Cangiano, ucciso a soli 10  anni, la sera del 15 dicembre 1983, è una di quelle vicende tragiche difficile anche da ascoltare. E quando ti capita di ascoltarla, poi non ci dormi la notte.

La storia di Luigino è tratta dal mio libro "Al di là della notte" ed Tullio Pironti
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«E chi se la scorda più quella sera... Sono passati ventisette anni, ma ho tutto impresso nella mente come se fosse accaduto ieri». Maria Sarnataro, la mamma oramai settantottenne di Luigino Cangiano, capelli bianchi e fisico appesantito, ricorda con lucidità i fatti e i particolari di quella sera. Tira fuori la foto di Luigino da una scatola di latta. È la stessa pubblicata su un giornale dell’epoca. La guarda e dice: «Eccolo qui, vedete?, mio figlio Luigino a dieci anni. È possibile che me lo abbiano ucciso così, senza una ragione?».

Luigino con la scuola non ci andava tanto d’accordo. Per lui era una perdita di tempo. Aveva dieci anni e frequentava ancora la prima elementare. Preferiva scorazzare per il suo popoloso quartiere con altri suoi coetanei. Si sentiva libero, senza vincoli, come un uccellino che vola tra i rami di un albero. La maggior parte del tempo lo impiegava a giocare a pallone con gli amici. Il calcio era la sua passione. Il suo sogno era quello di diventare calciatore e magari giocare proprio nella sua squadra del cuore, il Napoli. Abitava con la famiglia nel popoloso quartiere del rione Siberia, dalle parti di Poggioreale. Un quartiere che poco più di dieci anni fa è stato raso al suolo e gli abitanti trasferiti in case edificate in un altro rione a poche centinaia di metri.

Luigino abitava al primo piano di un casermone grigio, isolato 6. Tutt’intorno fiorivano attività illegali con tanta gente che faceva i mestieri più disparati per “arrangiarsi”, per cercare di arrivare al giorno dopo. La vita da quelle parti non garantiva il futuro, ma solo il giorno per giorno. Luigino era l’ultimo di dodici figli. Nella sua famiglia nessuno era andato a scuola. Solo il primo dei suoi fratelli, Antonio, ventinove anni, aveva fatto la quinta elementare. La mamma, Maria Sarnataro, cinquantadue anni, vendeva bibite e cianfrusaglie a bordo di un furgone. Girava per tutta la città per cercare di vendere la sua mercanzia, accompagnata da altri quattro figli. Il padre, Gennaro Cangiano, cinquantacinque anni, faceva il muratore a giornata presso una ditta impegnata nella ricostruzione del dopo terremoto. La tragedia si consumò quasi alle dieci di sera del 15 dicembre del 1983, quando mancavano pochi giorni al Natale.

Due poliziotti in borghese della sezione narcotici arrivarono nel quartiere a bordo di un’auto civetta. Cercavano spacciatori di droga. Bloccarono due persone in via Cannola al trivio, proprio davanti all’abitazione di Luigino. Gli agenti li perquisirono dopo averli identificati. Gli trovarono addosso quindici dosi di droga e una pistola. I due erano Antonio Cangiano, il primo dei fratelli di Luigino, e Stanislao Spavone, un ragazzo di venti anni. Antonio era disoccupato. Sposato con due figli. L’altro ragazzo, invece, era incensurato.

«Arrivarono all’improvviso», racconta la sua versione dei fatti Antonio Cangiano, oggi cinquantasei anni, mentre sorseggia un caffè nell’abitazione della mamma. «Io ero in auto con Stanislao Spavone, abitava anche lui nel quartiere. Ci fermarono e trovarono della droga nell’auto. Era di Stanislao. Era un forte consumatore, tant’è che è morto proprio di overdose. Io all’epoca facevo furti e altre piccole illegalità per andare avanti. Ma la droga no, non la toccavo. Ci perquisirono e ci diedero tante di quelle botte», dice con linguaggio colorito, «che ancora oggi non me le dimentico. Urlavamo perché il dolore era forte. Le nostre grida si sentivano anche nelle case. All’improvviso, poco più in là, dei ragazzini spararono dei mortaretti.

Mancava poco al Natale e in quel periodo si usava sparare i botti. I poliziotti, evidentemente, si impressionarono perché pensarono a colpi di pistola che qualcuno gli stava sparando contro. Tirarono fuori le armi di ordinanza e cominciarono a sparare a loro volta. Sparavano ad altezza d’uomo nella direzione in cui avevano sentiti i botti. Dal palazzo di fronte risposero al fuoco quando s’accorsero che da sotto c’era qualcuno che sparava contro di loro. All’epoca c’era molta tensione tra il clan della Nuova Famiglia e i cutoliani. I poliziotti erano senza divisa e così si generò un gran casino nato dalla tensione che c’era in giro».


E piange. Piange Maria Sarnataro e non sa darsi pace. Seduta in cucina nella sua casa popolare nel quartiere di Poggioreale, rivive la tragedia con la stessa sofferenza di ventisette anni fa. Le lacrime non si fermano. Urla, come se stesse urlando ai poliziotti. Si accalda. Si deve fermare mentre racconta perché le lacrime prendono il sopravvento. «Luigino era un bambino di cuore. Ogni tanto si presentava a casa con qualche ragazzino della sua età e mi chiedeva: “Mamma, gli dai un cioccolatino anche a lui? Mamma, pettina pure a lui. Mamma, abbraccia pure lui perché la mamma non ce l’ha”». «Guardate, guardate quant’era bello», dice mostrando una foto del ragazzino ucciso. E poi continua il racconto dove l’ha interrotto il figlio Antonio: «Avevamo appena finito di guardare in TV una puntata della telenovela Anche i ricchi piangono. Vennero a chiamarlo due suoi amichetti più piccoli. Abitavamo tutti su uno stesso pianerottolo. Erano case popolari. “Luigino, vuoi venire a comprare i botti?”. Lo lasciai andare con la promessa che sarebbero tornati subito. E mentre stavamo parlando in famiglia di come organizzare il pranzo di Natale, sentimmo delle grida provenire dalla strada: era mio figlio Antonio e l’altro ragazzo che chiedevano aiuto perché i poliziotti li stavano picchiando. La gente del quartiere cominciò a scendere in strada. Mia nuora venne ad avvisarmi per dirmi che i poliziotti avevano preso due persone. Potevano pure evitare di picchiarli nel quartiere davanti ai genitori e agli amici. Credo che sia naturale cercare di difendere il sangue del proprio sangue. Se proprio volete picchiarli, portateli in Questura, lontano da tutti e, come si dice: “Uocchie ca nun vede, core ca nun sente”  (“Occhio che non vede, cuore che non sente”)», cita un proverbio napoletano la signora Sarnataro. «Improvvisamente sentii sparare. Abitavamo al primo piano e i poliziotti erano a poco più di venti metri.

Gli agenti erano accovacciati dietro un muro da dove vedevo piccole fiammate uscire dalle pistole. Pochi attimi dopo vidi un ragazzino si era messo davanti ad altri due bambini per proteggerli dal fuoco delle pistole. Il ragazzino venne colpito. Si aggrappava vicino ad un’auto ma non ce la faceva a restare in piedi e cadeva a terra. Dissi: “Povera la mamma di quel bambino. Chissà chi dovrà piangere”. Maria Sarnataro si ferma ancora una volta. Scoppia in lacrime, abbassa la testa sul tavolo della cucina. Si tiene il petto. Riesce a dire tra le lacrime: «Quella mamma ero io e non lo sapevo». Non ce la fa a continuare il racconto. Il dolore è come se le arrivasse al viso e volesse uscire. La faccia diventa rossa. Prende la foto di Luigino che è sul tavolo della cucina e la guarda. La bacia. E nuovamente le lacrime le solcano il viso. Poi, piano piano, riprende a raccontare: «Uscì anche mio marito Gennaro che mi diceva: “Maria non scendere, è pericoloso”. “Ma lì c’è un bambino a terra, Gennà. L’hanno sparato, io non ce la faccio a stare qui. Devo scendere ad aiutarlo”. I poliziotti gridavano: “Signora, andate via, non scendete”. Ma io scesi con lo sdegno di una mamma, pur non sapendo che il bambino lì a terra era mio figlio. Quando mi resi conto che il corpo era quello di Luigino, mi prese la disperazione. “Figliu mio, figliu mio”, cominciai a gridare. Gli arrivai vicino, ma i poliziotti mi gridavano ancora: “Iatevenne! Iatevenne!”. Io non obbedivo. “Perché me ne devo andare? Lì a terra c’è il mio bambino. Non mi muovo da qui”.

Luigino stringeva ancora tra le mani i botti che poco prima aveva comprato per spararli insieme ai suoi amici. Il suo corpicino era rivolto faccia a terra ma si muoveva ancora. I poliziotti non mi volevano far avvicinare. Lo trattavano come se fosse un cane. Avete mai visto quando un cane viene investito da un’auto in mezzo alla strada?», cerca di spiegare Maria Sarnataro. «C’è sempre qualcuno che lo toglie da lì, lo mette sotto il marciapiede e aspetta che va in putrefazione per pulire tutto. E con mio figlio sembrava stessero facendo la stessa cosa. Ma quello era mio figlio, non era un cane». «Luigino rimase lì a terra inspiegabilmente per alcune ore», ricorda anche Antonio Novelli, classe 1973, coetaneo e amico del piccolo ucciso. «Rammento tutto molto bene di quella sera. Luigino fu sparato sotto il mio balcone. Stava a terra con un lenzuolo addosso, come se fosse morto. I poliziotti non facevano avvicinare nessuno. Poteva essere salvato». «Solo dopo la mezzanotte portammo Luigino in ospedale», riprende a raccontare l’anziana madre. «Lo presi in braccio e salii nell’auto dei poliziotti. Ci dirigemmo verso l’ospedale Don Bosco, al rione Doganella, ma la strada era interrotta. Così andammo verso il Loreto Mare. Mio figlio continuava a perdere sangue. Fu colpito ad un braccio e all’addome. Me lo sentivo morire in braccio. Lo accarezzavo, gli parlavo mentre il sangue continuava a colare sui miei vestiti. Finalmente arrivammo in ospedale, ma fu una corsa inutile. Morì una diecina di minuti dopo il ricovero. Il medico mi disse che era morto dissanguato e che, soccorso in tempo, si poteva salvare».

Ma la notte era ancora lunga. Di quelli che spararono contro gli agenti, nessuna traccia. Tutti scomparsi nel dedalo di abitazioni e strade del quartiere che di sera diventano nascondigli impenetrabili. «I poliziotti andarono casa per casa a fare i rastrellamenti. Sembrava come nelle Quattro giornate di Napoli. Io me li ricordo bene quei giorni», dice la signora Maria con le lacrime agli occhi, «quando i tedeschi giravano di casa in casa. E mi sembrava di vivere le stesse scene di allora».

Maria fu interrogata in Questura, dove c’era l’altro figlio, Antonio, arrestato insieme a Stanislao Spavone. «Mi tennero per molte ore in Questura insieme a mio marito. Prima mi fecero vedere mio figlio, Antonio, con la faccia tumefatta e piena di sangue. L’avevano picchiato. Poi volevano sapere da me chi avesse ucciso mio figlio. “Siete stati voi poliziotti. Siete degli assassini. Siete degli assassini”, gridavo forte. Poi mi calmarono. E uno di loro mi fece questo discorso: “Signora, voi avete un figlio morto e uno in carcere. Cercate di aiutare quello che è ancora vivo, perché per quello morto non c’è più niente da fare. Badate a quello che dichiarate”. Quel poliziotto voleva intendere: “Parlate e non abbiate paura perché se qualche delinquente vi ha pagato per farvi stare zitta e cambiare versione dei fatti, state sbagliando”. Io gli risposi con parole in dialetto napoletano: “I figli nun se venneno e nun s’accattano. ’O sangue è na radice. Comme scorre accussì s’acconcia”. Per dire che nessuno poteva comprare la mia versione dei fatti. Solo una mamma può capire cosa vuol dire perdere un figlio».

La ricostruzione della polizia, anche sulla base della posizione del corpo del ragazzo, aveva avvalorato in un primo momento l’ipotesi che il piccolo fosse stato colpito alle spalle da una pallottola degli sconosciuti che avevano sparato contro gli agenti. Sul luogo dove avvenne la sparatoria furono sequestrati oltre dieci bossoli calibro 7,65 sparati dagli sconosciuti con una mitraglietta. La polizia sparò con pistole calibro 9. «A mio figlio l’hanno ucciso i poliziotti», dice categorica la signora Maria Sarnataro, «e lo portano sulla coscienza. Perché se lo avessero portato prima al pronto soccorso, non sarebbe morto dissanguato». La perizia balistica agli atti del processo ha stabilito che furono i poliziotti a colpire Luigino. Nel giorno dei funerali in chiesa c’era una folla strabocchevole. La mamma, Maria, con il volto pieno di graffi. Se l’era fatti da sola. La disperazione la portava anche a questo. «Non avevamo nemmeno i soldi per fare il funerale», dice la signora Maria. «Dovetti farmi prestare un milione di lire per seppellirlo».

La morte tragica di Luigino scosse tutti. Al funerale parteciparono anche molti agenti della Questura di Napoli. Il quotidiano del Vaticano, «L’Osservatore romano», in un editoriale, il giorno dopo la morte del ragazzo, scriveva: «L’“abitudine” ad avvenimenti come la morte del piccolo Luigi Cangiano, colpito da un proiettile durante una sparatoria tra malviventi e polizia non può impedirci di pensare che in ogni città, in ogni quartiere, a qualunque ora del giorno e della notte tutti hanno diritto di vivere, di camminare, di parlare, di incontrarsi». E ancora: «In questa “abitudine” sta forse la tragedia più grave. E la morte di un ragazzino di dieci anni può forse almeno suonare come un campanello d’allarme per le nostre coscienze».

Luigino Cangiano, dieci anni, ora riposa in una tomba al cimitero di Poggioreale. Con lui, nello stesso loculo, da cinque anni c’è anche il padre, Gennaro. In pochi si ricordano di lui. «Gli amici della scuola popolare che frequentava dal parroco», dice la mamma, «ogni anno il 15 dicembre gli fanno dire una messa. Vengono qui a casa a prendermi e mi portano in chiesa con loro. Apprezzo molto questo gesto. Sono già ventisei anni che fanno questo». Per il resto, Luigino è solo nel ricordo della mamma e dei suoi numerosi fratelli. «Da grande voleva fare il calciatore», dice ancora la signora Maria, «ma quella sera con Luigino hanno ucciso anche i suoi sogni».

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