Tophost
Google

domenica 8 gennaio 2012

GERARDO D'ARMINIO, UCCISO MENTRE STRINGEVA LA MANO AL SUO BAMBINO

Montecorvino Rovella è una cittadina in provincia di Salerno di cui fino a qualche anno fa ne conoscevo vagamente l’esistenza. Da qualche anno, invece, so che è il paese di origine di Gerardo D’Arminio, il maresciallo dei carabinieri che fu trucidato nella piazza di Afragola da esponenti del clan Moccia, la sera prima della Befana, il 5 gennaio del 1976. Aveva per mano il suo figlioletto di 4 anni, Carmine. Cosa accade quella sera, me l’ha raccontato qualche tempo fa una una delle sorelle di Gerardo D’Arminio, Orsola.


La storia è tratta dal mio libro "Al di là della notte" ed. Tullio Pironti


----------------


«“Scendo con Carmine al negozio in piazza. Compro dei giocattoli e torno. Domani è la Befana. A lui voglio comprargli una bicicletta”. Furono le ultime parole di mio fratello. Si avviò con uno dei figli piccoli, Carmine, che allora aveva quattro anni e non l’abbiamo più rivisto». È la sorella Orsola, l’unica ancora vivente, a ricordare quegli ultimi momenti del maresciallo dei carabinieri Gerardo D’Arminio, padre di quattro bambini, ucciso nella piazza principale di Afragola il 5 gennaio del 1976. «Fino a qualche mese prima», racconta Orsola D’Arminio, «aveva comandato la stazione dei carabinieri di Afragola. Poi era stato trasferito al nucleo operativo a Napoli, alla caserma Pastrengo. Aveva dovuto lasciare la sua abitazione in caserma. A Napoli le case erano care. E così rimase ad abitare ad Afragola». Il maresciallo D’Arminio era originario di Montecorvino Rovella, in provincia di Salerno. Vi era nato il 12 dicembre del 1937. Era sposato con Anna Benvenuto, da cui aveva avuto quattro figli: Giusy, Orsola (che lui chiamava Annalina), Carmine e Marco. AMontecorvino aveva la sua famiglia, le sorelle, gli amici d’infanzia. Lì c’erano le sue radici. Le radici di una famiglia nobile e antica, consacrata dagli Aragonesi, con titolo nobiliare e proprietà terriere. Gerardo amava il suo piccolo paese. Amava le sue sterminate piantagioni di ulivo. Amava passeggiare sui vicini monti picentini, che da ragazzo si divertiva a scalare in bicicletta. Faceva lunghe passeggiate sul monte Nebulano che domina il paese. Andava alla scoperta di sorgenti di acque sulfuree, che da quelle parti sono numerose. Si divertiva un sacco e, soprattutto, si rilassava. E ogni volta che poteva, tornava ben volentieri nella sua Montecorvino per ritrovare i luoghi e gli amici della sua infanzia. Partì giovane da Montecorvino. Lasciò le campagne e la vallata per arruolarsi nell’Arma a vent’anni, in cerca del «posto sicuro», come tanti giovani meridionali. A ventidue era già vicebrigadiere. Il suo fascicolo personale è ricco di encomi solenni per aver partecipato a varie operazioni nelle città dove prestava servizio: Chieti, Isernia, i piccoli paesini della Sicilia e Palermo dove venne promosso maresciallo. Poi fu trasferito a Napoli e assegnato alla caserma dei carabinieri di San Giovanni a Teduccio.



Siamo nel 1970, proprio nel periodo in cui c’è la lotta tra i siciliani e i marsigliesi per il controllo delle «vie del tabacco» dove passa anche la droga. Il maresciallo D’Arminio viene incaricato di dirigere il nucleo antidroga. Sequestra ingenti quantitativi di droga. Scopre il canale attraverso il quale si importa eroina dal Perù passando per Francoforte e Milano. Arresta Antonio Ammaturo, a capo della holding criminale che traffica in droga. Era anche la memoria storica delle vicende di criminalità. Si ricordava degli atti giudiziari di ogni delinquente. Delle sue alleanze, dei suoi crimini, delle inchieste in corso. Il maresciallo D’Arminio era un investigatore di razza, destinato ad una carriera importante all’interno dell’Arma. «Erano da poco passate le nove di sera», riprende a raccontare Orsola. «Io e l’altra mia sorella eravamo a casa di Gerardo ad Afragola. Ci passavamo le festività natalizie. E spesso stavamo a casa sua per aiutare la moglie con i quattro figli piccoli. Con i bambini da accudire non era facile andare avanti. Quella sera mio fratello tornò tardi dal servizio, ma volle uscire comunque.


Faceva di tutto per essere un buon padre, nonostante avesse un lavoro così impegnativo. Non erano ancora le nove e il negozio dove aveva scelto di andare, nella piazza principale del paese, era poco distante dalla casa in cui abitava. I negozi erano ancora aperti e affollati, come accade sempre il giorno prima della Befana. Verso le ventuno e quindici mentre stava facendo vedere la bicicletta al figlioletto, da una cinquecento gialla gli spararono con un fucile a canne mozze. Fu raggiunto da una scarica di otto pallettoni che gli si conficcarono tra il collo e la spalla. Il bambino era con lui, vide tutto. Vide il padre cadere con il corpo insanguinato. Vide la gente urlare e scappare. Carmine non capì subito cosa stava accadendo. Si sentì lasciare dalla mano del padre. Ebbe solo la forza di gridare: “Papà, papà, non mi lasciare!”.




Mio fratello fu trasportato al Loreto Mare, ma vi giunse cadavere. In quella cinquecento c’erano tre giovani, appartenenti ai Moccia, Luigi, Antonio e Vincenzo»: il clan sul quale il maresciallo D’Arminio aveva condotto indagini. Investigava da tempo sui rapporti tra clan siciliani e boss napoletani legati ai traffici internazionali di droga. «Eravamo in pena, perché alle undici di sera mio fratello non era ancora ritornato. La moglie cominciava a preoccuparsi. Mi chiedeva continuamente: “Ma quando torna? Ha con sé anche il bambino. Cosa sarà accaduto?”. Nessuno ci avvertì.




La notizia della morte di mio fratello la sentimmo dalla televisione. Gerardo aveva condotto tante indagini delicate», dice ancora Orsola. «Era diventato maresciallo maggiore non per anzianità, ma per meriti acquisiti sul campo. Aveva avuto undici encomi. Mio fratello era uno che lottava contro la criminalità e che a detta di tutti quando c’era lui a comandare la stazione di Afragola i crimini erano diminuiti di parecchio. Era considerato un esperto di mafia perché era stato quattro anni a Palermo. Del delitto di mio fratello Gerardo alla fine si autoaccusò il più piccolo dei tre fratelli Moccia, Vincenzo, che all’epoca era minorenne e credo che lo chiamassero “Angioletto”. Al processo venne condannato a diciassette anni, ma, dopo abbuoni vari e buona condotta, è stato in carcere solo undici anni». Vincenzo Moccia, appena uscito dal carcere, fu assassinato da un commando, nell’ambito di una guerra di camorra. «Da allora c’è una famiglia distrutta. La primogenita di mio fratello, Giusy, è morta il 25 luglio del 2003. Aveva un male incurabile. La moglie Anna è deceduta a maggio del 2009.



La famiglia, in pratica, non c’è più. I figli non vogliono conservare niente che ricordi la morte del padre. Gli è mancato tanto e non riescono a colmare il vuoto che ha lasciato. E ora sembra che nessuno più se ne ricorda di quel maresciallo così attivo e così dedito all’Arma dei Carabinieri», dice Orsola con una vena di amarezza nella voce. «Per lui la divisa che indossava era tutto. Prima della divisa c’era la famiglia. Che ora è come se fosse morta con lui. E dopo tanti anni dalla sua morte, mio fratello è come scomparso dalla vita collettiva, nessuno più ne ha memoria. Per ricordarlo gli facciamo dire una messa tutti gli anni. È venuta una mia cugina a casa proprio il giorno dell’anniversario della sua morte e ha portato un articolo di giornale che lo ricordava. S’è messa a piangere solo parlandone. E con lei anche tutta la famiglia. Qui è come se ci fosse perennemente il lutto. Ora che sono passati trentaquattro anni, al solo parlarne, il dolore che portiamo dentro è come se si riacutizzasse. Si aprono tutte le ferite». La voce di Orsola è rotta dall’emozione. «Non esistono più feste, non esistono più giornate di sole. Non esiste più niente. È tutto spento. Si va avanti per inerzia. La nostra vita s’è fermata a quel 5 di gennaio del 1976».


La famiglia D’Arminio ora vive a Montecorvino Rovella, cercando di sopravvivere alla tragedia. È ritornata dove aveva le radici. Dove ci sono i monti che circondano il paese, pieni di sorgenti sulfuree. Ma quel carabiniere che non aveva paura di niente, non c’è più. C’è solo il dolore e una lapide nella piazza principale di Afragola che lo ricorda. Alla sua memoria è stata assegnata la medaglia d’argento al valor militare.

Nessun commento:

Posta un commento

Google