Alberto Vallefuoco - Rosario Flaminio e Salvatore De Falco |
Salvatore De Falco, Rosario
Flaminio e Alberto Vallefuoco, sono
felici. Sono tre ragazzi che ce l’hanno fatta. Tra poco saranno assunti nel
pastificio Russo di Pomigliano, dove da alcuni giorni lavorano attraverso una
“borsa lavoro”. Salvatore ha 21 anni, Rosario e Alberto 24. I tre hanno legato
subito. Sono diventati amici. Sono sempre insieme in fabbrica e anche fuori.
Hanno gli stessi ideali, gli stessi sogni, la passione per lo sport, per le
ragazze. Così quando il 20 luglio del 1998 escono dal pastificio durante la
pausa pranzo, vanno insieme in un bar proprio vicino al pastificio Russo. Un
caffè, quattro battute con la giovane cassiera e poi il rientro in fabbrica. Ma
proprio in quel momento giungono tre persone a bordo di una "Lancia Y" . Hanno
in mano pistole e kalashnikov ed il volto coperto da cappucci. Sparano in
direzione di Salvatore, Rosario e Alberto. Sono loro l’obiettivo di morte dei
killer. Sparano decine di colpi. Li uccidono all'istante. Viene ferita anche la
cassiera del bar. Attimi di terrore che creano scompiglio tra gli altri
avventori del bar e i pochi passanti. In zona è in atto una guerra tra clan.
Precisamente tra il clan “Cirella” e “Veneruso”. I tre sono stati scambiati per emissari del
clan “Veneruso”, alleato dei “Piccolo” di Marcianise venuti per chiedere il
pizzo ai titolari del Pastificio Russo. Invece sono solo tre ragazzi che
aspettavano di vivere la loro vita. A
rivelare i particolari di questa vicenda nel dicembre 2010, dodici anni dopo, è
stato un collaboratore di giustizia. I tre ragazzi furono uccisi per
rappresaglia dopo la strage del “giovedì Santo”, avvenuta a Marcianise nell’aprile del 1998. Quella strage è
l’antefatto che porta alla morte di Salvatore, Rosario e Alberto. I particolari
di tutta la vicenda sono ricostruiti dall’Agenzia Ansa il 7 dicembre del 2010:
“Un falso
geometra e un falso ingegnere bussarono alla porta del boss Achille Piccolo,
sperando di ingannarlo e di ucciderlo. Lui però aveva intuito il tranello e si
fece trovare circondato da uomini armati. Ne scaturì una feroce sparatoria che
si concluse con la morte di tre persone dell'uno e dell'altro gruppo: è quella
che a Marcianise (Caserta) si ricorda come «la strage del giovedì santo». Dodici
anni dopo, grazie ad alcuni collaboratori di giustizia, di quell'episodio si
conoscono nel dettaglio dinamica, movente, mandanti ed esecutori. Quattro le
ordinanze di custodia cautelare notificate oggi dai carabinieri di Napoli:
destinatari sono Salvatore Belforte, Michele Cirella, Roberto Vicale ed Achille
Piccolo. Tra i Belforte e i Piccolo, un tempo alleati tra loro sotto l'egida del
boss Raffaele Cutolo, era in atto da tempo una faida cruenta. Nel conflitto a
fuoco dell'aprile 1998 morirono Elpidio Gravante e Giuseppe De Crescenzo, legati
al clan Piccolo; Achille Piccolo, benchè ferito, riuscì a sua volta ad uccidere
Aniello Cirella, alleato dei Belforte. Di lì a pochi mesi la strage di
Marcianise ebbe un tragico corollario: il padre di Aniello Cirella chiese al
boss Salvatore Belforte di vendicare il figlio. Fu organizzata una spedizione
punitiva a Pomigliano d'Arco, davanti al pastificio Russo. Qui, secondo le
informazioni raccolte, dovevano giungere, per chiedere una tangente ai
proprietari dell'azienda, tre taglieggiatori di un gruppo alleato dei Piccolo.
Per un tragico errore, invece, gli uomini inviati dal boss Salvatore Belforte
(paragonato dal gip al re Erode, che ordinò una strage di bambini per uccidere
Gesù ed eliminare un potenziale rivale) scambiarono per taglieggiatori tre
operai del pastificio che stavano prendendo un caffè a uno chalet vicino. Così
il pentito Giovanni Messina racconta la strage di Marcianise: «Io ed il Cirella
ci accordammo che sarebbe sceso prima lui ed entrato nel portone del Piccolo per
verificare l'eventuale presenza di persone armate e, in caso di necessità,
avrebbe usato una frase convenzionale per consentirmi di intervenire già armato
e cominciare a sparare. La frase era: 'ingegnere, potete entrare. Fu così che
quando giungemmo nuovamente al portone di ingresso dell'abitazione del Piccolo,
io attesi vicino alla macchina, mentre il Cirella citofonò e si fece aprire.
Quando venne aperto il portoncino d'ingresso, il Cirella, dopo aver fatto un
passo avanti, si girò verso di me e mi invitò ad avvicinarsi con la frase
convenzionale. Intuii immediatamente che si trattava di una situazione di
pericolo per cui mi avvicinai impugnando la pistola semiautomatica già pronta
all'uso. Appena fui alle spalle del Cirella, che era appena entrato nel
portoncino, udii alcuni colpi di arma da fuoco e vidi il Cirella cadere davanti
a me. Di fronte intravidi una persona con una pistola semiautomatica, contro cui
feci immediatamente fuoco, vedendola cadere all'istante. Con la coda dell'occhio
mi accorsi che sulla mia sinistra, appoggiato all'interno del portone, vi era
una persona armata, contro cui girai l'arma che impugnavo con la destra e feci
fuoco a ripetizione, scaricandole addosso tutto il caricatore.
Contemporaneamente estrassi dalla cintola il revolver e con la sinistra esplosi
altri tre o quattro colpi all'indirizzo della persona che era di fronte a me e
che già era a terra. Sono certo di aver ucciso entrambi. Il tutto ebbe luogo in
pochissimi secondi».
«Sembra che l'inferno si sia
trasferito sulla terra, con il Maligno che spinge gli uomini a compiere azioni
terrificanti»: così una delle più alte cariche ecclesiastiche della provincia di
Caserta cominciò l'omelia tenuta in occasione della celebrazione eucaristica
della Pasqua del 1998, avvenuta tre giorni dopo la strage di Marcianise. La
citazione è agli atti dell'inchiesta che ha portato questa mattina alla notifica
di quattro ordinanze di custodia cautelare. Anche in altre occasioni i Belforte
avevano scelto giorni festivi per commettere omicidi: oltre al Natale del 1997,
in cui vennero assassinati due uomini vicini ai Piccolo, era accaduto per
esempio l'11 novembre del 1986, quando, nella stessa abitazione teatro del
massacro del giovedì santo, c'era stata un'altra feroce sparatoria in cui era
caduto, tra gli altri, il boss Antimo Piccolo, padre di Achille, arrestato
questa mattina; quell'episodio è tuttora ricordato in zona come «la strage di
San Martino».
«Il boss
Salvatore Belforte, destinatario di una ordinanza di custodia per un triplice
omicidio avvenuto 12 anni fa, è paragonato dal gip al re Erode: «Una vicenda -
scrive il giudice riferendosi alla strage del giovedì santo - animata da
autentica sete di sterminio, riassumibile nelle rivelate intenzioni di Salvatore
Belforte, moderno Erode, il quale vagheggia l'annientamento fisico di tutti i
discendenti maschi del gruppo rivale, a prescindere dalla loro età. Eliminato in
un'azione analoga, oltre dieci anni prima, il capoclan Antimo, tutti i Piccolo,
anche i giovanissimi, devono ora morire, affinché di loro non resti neppure il
ricordo e la genia si estingua definitivamente, soffocata nel sangue». Il gip si
riferisce alle dichiarazioni di un collaboratore di giustizia. Spiegando le
perplessità nell'attuare il piano per colpire i Piccolo (i killer dovevano
spacciarsi per geometri e ingegneri di un cantiere che volevano concordare il
pagamento di una tangente) il pentito Giovanni Messina, che partecipò alla
strage e uccise sia Elpidio Gravante sia Giuseppe de Crescenzo, racconta
infatti: «Gli raccontammo (a Belforte, ndr) anche di quei passaggi di quelle
persone sui ciclomotori ed in particolare di quel ragazzino biondo, che mi aveva
colpito in maniera particolare. Il Belforte mi disse che quello era il fratello
minore di Piccolo Achille, e mi aggiunse di ucciderlo qualora se ne fosse
ripresentata l'occasione. Ricordo ancora che mi disse che era sua intenzione
estirpare alla radice tutta la famiglia Piccolo, a prescindere dall'età dei suoi
componenti». Belforte, è scritto ancora nell'ordinanza, «si vanterà coi suoi
accoliti di aver rovinato anche la Pasqua ai Piccolo, dopo avergli rovinato il
Natale (nelle precedenti festività natalizie lo scontro aveva lasciato sul
terreno due cadaveri, inducendo le autorità a disporre un inutile
coprifuoco».
Bruno Vallefuoco, il papà di
Alberto, in un’intervista a Road TV: “Alberto era un ragazzo come tanti. Aveva
24 anni e i suoi sogni erano quelli dei ragazzi della sua età.
Aveva già dovuto misurarsi con la realtà, quindi i suoi sogni erano qualcosa di
più concreto. Sognava un lavoro. Perché dalle nostre parti anche il lavoro è un
sogno. Sognava di farsi una famiglia. Ed è stato ucciso mentre cercava di concretizzare qualche suo
sogno. E’ stato ucciso insieme a due suoi coetanei, Rosario e Salvatore, mentre
frequentava una borsa lavoro. Erano già sicuri che alla scadenza sarebbero stati
assunti da questa azienda di Pomigliano. Loro non sapevano, però che questa azienda pagava il pizzo al clan Cirella ex
clan Egizio e che nel luglio del 1998 un
altro clan stava cercando di farsi spazio sul territorio. I titolari del
pastificio anziché comportarsi come esemplari cittadini e denunciare tutto alla
polizia, preferirono stare zitti, contribuendo ad alimentare voci diffamanti sui
tre ragazzi. Il 20 luglio del 1998,
questi tre ragazzi vengono trucidati perché qualcuno è stato troppo vigliacco
per rivolgersi alla polizia. E sono stati ancora trucidati nel corso delle
indagini. I titolari del pastificio Russo non hanno fatto niente per aiutare le
forze dell’ordine nelle indagini e nemmeno quando i giornali prezzolati dalla
camorra hanno continuato a massacrare Salvatore, Rosario e Alberto. Quando hanno
tentato di far credere a tutti che in fondo se la sono meritata. Non hanno mosso
un dito quando sui giornali si scriveva che i tre sono stati puniti perché:
“Hanno violentato una ragazza; Hanno spacciato droga per clan rivali, o uno di
loro era l’amante della moglie di uno che stava in galera”. Il pastificio
sapendo quello che veramente era successo ha lasciato fare. Ha continuato a
negare e a non dire la verità.
Vigliacchi”.
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