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sabato 3 settembre 2011

NAPOLITANO, SACRIFICIO DALLA CHIESA MOBILITÒ COSCIENZA CIVILE

Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in occasione del 29° anniversario dell'agguato mafioso di via Carini a Palermo, nel quale persero la vita il prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa, la moglie Emanuela Setti Carraro e l'agente di scorta Domenico Russo, ha inviato al prefetto di Palermo, Umberto Postiglione, un messaggio nel quale ricorda con immutata emozione come «quel giorno, la mafia volle la morte di un servitore dello Stato che con coraggio e rigore aveva combattuto ogni forma di violenza e illegalità costituendo essenziale punto di riferimento per la intera comunità nazionale e per coloro che avevano potuto apprezzarne quotidianamente la ferrea determinazione e la capacità nell'individuare metodi di indagine nuovi ed efficaci». «Con il suo assassinio -si legge ancora nel messaggio- la delinquenza organizzata cercò di minare la credibilità delle istituzioni e di innescare la folle fase della sua strategia criminale tesa a sovvertire il nostro ordinamento. All'assassinio seguirono invece un'intensa azione di contrasto del fenomeno mafioso e quella mobilitazione della coscienza civile che egli aveva auspicato fin dal suo arrivo a Palermo, ritenendola indispensabile per sostenere l'impegno delle forze dell'ordine e della magistratura». «Il ricordo del sacrificio del generale Dalla Chiesa permane vivo nella memoria di tutti e a tutti impone una continua vigilanza contro le persistenti forme di infiltrazione della criminalità e il rafforzamento della cultura del rispetto delle regole contro ogni forma di violenza e sopraffazione. In questo spirito e interpretando il pensiero di tutti gli italiani -conclude Napolitano- rinnovo ai famigliari del generale Dalla Chiesa, della sua gentile consorte e dell'agente Russo, il mio commosso omaggio e la mia solidale vicinanza».

«Dalla Chiesa capì che Cosa nostra aveva raggiungo un livello altissimo di collusioni con pezzi delle istituzioni, della politica e dell'economia». Lo ha detto il senatore del Pd Giuseppe Lumia, componente della Commissione antimafia. «Pertanto pensò - aggiunge - ad una strategia complessiva di lotta alla mafia: la repressione, l'aggressione ai patrimoni, la rottura del sistema di collusioni, la promozione dei diritti e dello sviluppo. Purtroppo non solo non è stato messo nelle condizioni di fare tutto questo, ma è stato tradito dallo Stato». «La sua eredità è ancora attualissima, anche perché in questi decenni - osserva - non è stata fatta pienamente propria dalla politica. Il modo migliore di commemorarlo è quello di fare memoria attiva dei suoi insegnamenti con leggi, strumenti e risorse per liberare il Paese da questo cancro maledetto».

Fonte: ANSA

venerdì 2 settembre 2011

DALLA CHIESA: DOMANI COMMEMORAZIONI A PALERMO A 29 ANNI DALLA STRAGE

 Le deposizione di una corona d'alloro sul luogo dell'eccidio, in via Isidoro Carini, a Palermo, e una messa che sarà celebrata nella chiesa di S. Giacomo dei Militari, nella sede del comando Legione Carabinieri Sicilia ricorderanno, domani, il 29ø anniversario della strage mafiosa in cui persero la vita il prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa, la moglie Emanuela Setti Carraro e l'agente di scorta Domenico Russo. Alla deposizione della corona d'alloro, che si terrà alle 9.30, oltre alle autorità militari e civili, parteciperà, in rappresentanza del Governo, il sottosegretario all'Interno Alfredo Mantovano. Il 3 settembre del 1982 la guerra che la mafia aveva dichiarato allo Stato segnò uno dei momenti più tragici. Sotto una pioggia di piombo cadde un simbolo delle istituzioni, costretto, negli ultimi giorni della sua vita, ad affidare al giornalista Giorgio Bocca l'amaro sfogo di chi ha capito di essere solo.«Un uomo viene colpito quando viene lasciato solo», disse. Parole che descrivevano le condizioni difficili in cui il generale svolgeva il suo compito di superprefetto contro la mafia. Nell' uccisione di Dalla Chiesa, massacrato a colpi di kalashnikov in via Isidoro Carini, mentre era in auto con la moglie, seguito dall'alfetta di scorta dell'autista, il ruolo esecutivo della mafia è ormai accertato. A distanza di 29 anni dall'eccidio, però, restano intatte le zone d'ombra di cui parlano gli stessi giudici di Palermo che hanno condannato i killer. Le sentenze sottolineano la «coesistenza di specifici interessi - anche all'interno delle istituzioni - all' eliminazione del pericolo costituito dalla determinazione e dalla capacità del generale». La giustizia si è fermata ai mandanti mafiosi, dunque, e agli esecutori materiali. All'ergastolo sono stati condannati i killer Raffaele Ganci, Giuseppe Lucchese, Vincenzo Galatolo, Nino Madonia e a 14 anni i collaboratori di giustizia Francesco Paolo Anzelmo e Calogero Ganci. Gli uomini della «cupola», Totò Riina, Bernardo Provenzano e Michele Greco, erano già stati condannati al maxiprocesso, nato proprio da un rapporto di Dalla Chiesa contro 162 esponenti di Cosa nostra.

(Fonte: ANSA).

RICORDATI A ROMA I GIORNALISTI GRAZIELLA DE PALO E ITALO TONI

Si è tenuta stamattina alle 9, nella basilica di Santa Maria in Ara Coeli a Roma, la celebrazione in ricordo dei giornalisti Graziella De Palo e Italo Toni scomparsi in Libano il 2 settembre 1980 e per i quali il Comune di Roma da tre anni si è impegnato a onorarne il ricordo dedicandogli un Viale che costeggia Villa Giordani e dove oggi sarà piantato un ulivo in loro ricordo. «Dobbiamo continuare a ricercare la verità sulla scomparsa di questi due giornalisti e tentare di recuperare le due salme - ha dichiarato il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, presente alla cerimonia - è una di quelle tragedie che ancora pesano sulla coscienza civile del nostro Paese». «Da parte mia - ha continuato - come sindaco di Roma, faccio appello al governo e alla Croce Rossa Internazionale affinché si possa finalmente ottenere aiuto e supporto dalle autorità libanesi per riportare in patria i resti di questi due nostri connazionali morti perché cercavano la verità».

La vicenda di Graziella De Palo e Italo Toni è stata rievocata dall'Amministrazione capitolina con una serie di iniziative a partire dal 2009 (in particolare con il convegno di due anni fa in Campidoglio intitolato «Graziella e Italo. Una giornata per non dimenticare» e con l'intitolazione dei viali all'interno del parco archeologico di Villa Gordiani, lo scorso anno), ma soprattutto con la richiesta del sindaco Gianni Alemanno al sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Gianni Letta, di valutare la possibilità di rimuovere il segreto di Stato che gravava sul caso fin dal 1984.

Nel dicembre del 2009, è stata applicata la legge di riforma dei servizi di informazione e sicurezza e sul segreto di Stato che ha finalmente consentito ai familiari dei giornalisti scomparsi di visionare, per la prima volta, i documenti conservati dai servizi di intelligence riguardanti il caso De Palo-Toni. Si è trattato del primo intervento del genere dall'approvazione della legge 3 agosto 2007 n. 124. Inoltre, su richiesta della signora Renata Capotorti, madre di Graziella, il Sindaco di Roma si è interessato all'istanza avviata dalla famiglia De Palo per l'ottenimento dei benefici previsti dalla legge n. 206 del 2004, come familiari di vittime del terrorismo

3 SETTEMBRE 1982. A PALERMO VIENE UCCISO DALLA MAFIA IL GENERALE DALLA CHIESA CON LA MOGLIE E L'AGENTE DI SCORTA, DOMENICO RUSSO

Il 3 settembre 1982 a Palermo vengono uccisi dalla mafia il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, la sua giovane moglie, Emmanuela Setti Carraro e il poliziotto di scorta, Domenico Russo, originario di Santa Maria Capua Vetere. Qui di seguito la storia di "Mimì", Domenico Russo, tratta dal mio libro "Al di là della notte" (ed. Tullio Pironti), che racconta di quell'agguato con la testimonianza dei familiari.

L'agente scelto Domenico Russo
Quella sera “Mimì” seguiva con la sua Alfetta nelle strade di Palermo la A112 del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Il nuovo prefetto, insieme alla giovane moglie, Emanuela Setti Carraro, trentadue anni, aveva deciso di uscire per andare a cena. Erano pochi i momenti intimi vissuti in quei mesi concitati nella lotta contro la mafia. Era stato fatto tutto così in fretta. Carlo Alberto nominato prefetto di Palermo il 30 aprile del 1982, sull’onda emotiva dell’uccisione del segretario regionale del Pci, Pio La Torre. Poi il matrimonio, il 12 luglio dello stesso anno, e dunque il trasferimento a Palermo. E poi l’isolamento in cui si era venuto a trovare il prefetto. Lo aveva denunciato anche attraverso i giornali in una intervista a Giorgio Bocca sulle colonne del quotidiano «la Repubblica». Emanuela quella sera lo voleva tutto per sé il generale. Tanto che si mise a guidare lei l’auto, come per dire: «Stasera esisto solo io».

Era una delle poche volte che poteva godersi il marito. Normalmente le sue giornate il prefetto le cominciava alle sette del mattino e le finiva dopo la mezzanotte. Domenico Russo, “Mimì”, faceva da autista e da scorta al generale. Era l’unico agente di scorta perché all’epoca non esisteva un servizio come quello di adesso. E l’auto non era nemmeno blindata. Uscirono da villa Whitaker, dov’è ospitata la prefettura, attorno alle ventuno. Dietro di loro si avviarono anche due auto e una moto. Una Bmw, una Fiat 132 e una moto Suzuki. In quelle macchine c’erano gli uomini che alcuni minuti dopo li massacreranno a colpi di mitra. Alle ventuno e quindici, in via Isidoro Carini, i sicari si materializzano. Affiancano l’A112 con dentro il generale e la moglie Emanuela Setti Carraro e un’altra auto affianca l’Alfetta guidata da Domenico Russo. I kalashnikov cominciano a crepitare. Emanuela è colpita. L’auto sbanda. Finisce la corsa vicino ad un marciapiede. Per lei e per il generale non c’è più niente da fare. Anche per Mimì, sventagliate di kalashnikov. Piovono proiettili. Per lui entra in azione la motocicletta che, secondo i pentiti, era guidata da Pino Greco, detto “Scarpuzzedda”. La sua auto va a sbattere dietro la A112 con dentro i corpi del generale e della moglie. Mimì scende dall’auto per difendere il prefetto e la giovane consorte. Si rende subito conto che il gruppo di fuoco era troppo numeroso e con la sua pistola d’ordinanza avrebbe potuto fare ben poco. Nonostante ciò, non esitò a sparare e a cercare di fermare i killer. Non resistette a lungo. Il volume di fuoco che misero in campo i mafiosi ebbe subito ragione del povero agente scelto. In due minuti il massacro era compiuto. I killer si fermano. Volevano essere certi che il prefetto rompiscatole, la moglie e il poliziotto di scorta fossero morti. Nel giro di un paio di minuti è tutto finito. Le auto dei killer partono a tutta velocità. Le troveranno poco dopo incendiate e quasi irriconoscibili. Ma Mimì non è morto, è ferito gravemente.

Il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa
e la moglie Emmanuela Setti Carraro
Trasportato in ospedale, i medici lo dichiareranno clinicamente morto. Morirà dopo tredici giorni di agonia. Qualche ora dopo, a Santa Maria Capua Vetere, quando la notizia si diffonderà, toccherà ad un carabiniere, un collega di Mimì, avvisare i suoi parenti. Sono appena passate le dieci di sera, quando un militare dell’arma suona al citofono in via dei Gladiatori, vicino all’anfiteatro romano. «Buonasera. Cerco i parenti di Domenico Russo», dice con voce tremante e imbarazzata. «Prego, dite, dite pure», risponde Secondino Russo, l’anziano papà di Mimì, mentre apre la porta per far entrare il giovane che indossa una divisa a lui familiare e cara. Al suo fianco la moglie Maria e un figlio, Giuseppe. «Ma è successo qualcosa a Mimì?», chiede la mamma, presagendo che chi aveva bussato fosse un messaggero di sventure. «Sapete», riprende imbarazzato il carabiniere, «c’è stato un conflitto a fuoco a Palermo. Domenico è stato ferito e si trova in ospedale». E mentre ancora il carabiniere cercava di minimizzare l’accaduto, arrivò Teresa, la sorella primogenita di Mimì, che invece aveva sentito la notizia al telegiornale. Nessuno dei familiari credette al ferimento. Sapevano bene che in questi casi le bugie sono dette a fin di bene, per non far spaventare i congiunti. Nella notte il papà di Mimì e il fratello Giuseppe vennero accompagnati a Palermo. Assistiti e sostenuti nel miglior modo possibile. Si resero ben presto conto di ciò che era accaduto e che per Domenico Russo era solo questione di ore. Non ce l’avrebbe fatta. I medici l’avevano dichiarato clinicamente morto.

Dopo tredici giorni di agonia, la sua vita si spense senza che avesse mai ripreso conoscenza. I funerali di Domenico Russo ebbero luogo in forma privata il 16 settembre 1982 nella chiesa di Santo Spirito nel cimitero palermitano di Sant’Orsola. Con i familiari c’era anche il sindaco di Santa Maria Capua Vetere e una delegazione di amministratori comunali. Al funerale c’erano centinaia di suoi colleghi carabinieri, ma anche di poliziotti. La salma, che per volontà della moglie rimase in Sicilia, fu portata a spalla dai colleghi nel breve tragitto che separava la chiesa dal loculo dove fu tumulato. Tra le autorità presenti ai funerali, c’erano una delegazione del Pci siciliano, il sottosegretario all’Interno Angelo Sanza, il presidente dell’Assemblea Regionale Siciliana Salvatore Lauricella, il perfetto Emanuele De Francesco, il ministro della Marina mercantile Calogero Mannino e il sindaco di Palermo, Nello Martellucci, fortemente contestato alla fine della cerimonia. Mimì aveva trentadue anni. Lavorava in Prefettura a Palermo già da qualche anno. Era nato a Santa Maria Capua Vetere il 27 dicembre del 1950. Era sposato con una ragazza siciliana, Fina, da cui aveva avuto due figli, Dino e Toni. Era orgoglioso di sua moglie e si notò sin da quando, ancora giovane carabiniere a Palermo, portò a casa la fidanzata siciliana per farla conoscere ai parenti.

«L’ho conosciuto Domenico Russo», racconta Gennaro Nuvoletta, carabiniere, fratello di un altro giovane carabiniere, Salvatore Nuvoletta, ucciso dalla camorra a Marano il 2 luglio del 1982. «Io facevo già da autista e da scorta al generale Dalla Chiesa da quattro anni. Quando venne nominato prefetto di Palermo il 30 aprile, mi portò con sé. Domenico Russo, bravissimo ragazzo, lavorava alla Prefettura di Palermo. Facemmo subito amicizia, perché lui era campano come me. Il prefetto lo scelse come autista e come agente di scorta. Il generale mi chiese di istruirlo per una ventina di giorni perché conoscevo già le sue abitudini e i suoi metodi di lavoro. Avevamo in dotazione una Croma blindata col telefono a bordo che portai a Palermo i primi di maggio di quell’anno. Il ragazzo di Santa Maria Capua Vetere si dimostrò subito all’altezza. Poi tornai a Marano perché il 4 luglio dovevo sposarmi. Il prefetto si doveva sposare il 12 luglio e mi propose di andare a vivere a Palermo. Mi avrebbe fatto alloggiare in un appartamento a Villa Pajno dove alloggiava insieme alla moglie. “Mia moglie lì non conosce nessuno e nemmeno tua moglie. Così le facciamo stare insieme e si fanno compagnia a vicenda”, mi aveva detto. Il generale Dalla Chiesa, intanto, mi teneva informato delle sue attività. Continuava a girare per le scuole. “È dai ragazzi che bisogna cominciare se vogliamo cambiare qualcosa, caro Gennaro”, mi ripeteva continuamente. “Io lo faccio, ma gli altri?”.

La situazione, però, precipitò. Il 2 luglio la camorra ammazzò mio fratello. Rimandai il matrimonio. Il generale si sposò e ripartì per Palermo. Il 3 settembre l’agguato e la tragica fine per mano dei mafiosi in cui morì anche Domenico Russo, mise fine a tutto». «Io sono la prima», dice Teresa Russo, la sorella di Mimì, «nonostante siano passati tanti anni dalla morte di mio fratello, non riesco a parlarne con serenità. Ogni volta che parlo di Mimì o mi ricordo dell’accaduto, mi sento male. Mi fa sempre lo stesso effetto, non ci posso fare niente». E mentre parla scoppia a piangere. Anche l’altro fratello Giuseppe non riesce a parlare di Domenico: «Che volete da me? È passato tanto tempo. Lasciateci stare». Qualche anno fa i fratelli di Mimì si sono incontrati a Capua con il figlio del generale Dalla Chiesa, Nando. Un incontro davvero commovente. Si sono detti solo poche parole. È bastato poco per dirsi con gli sguardi e con qualche lacrima tutto il dolore che si portavano dentro da quel 3 settembre del 1982. La moglie di Mimì e i due figli maschi vivono ancora a Palermo. Sono stati aiutati dallo Stato. Lei lavorava nei grandi magazzini. Fu assunta in Prefettura a Palermo come impiegata civile. Dino e Toni, dopo il diploma, sono stati assunti alla Regione Sicilia.

 Il Comune di Santa Maria Capua Vetere ha intitolato una strada a Domenico Russo. Proprio la via dove abitava da ragazzo. Al giovane poliziotto ucciso con il prefetto di Palermo e la moglie è stata anche assegnata la medaglia d’oro al valor civile con la seguente motivazione:
«Di scorta automontata per il servizio di sicurezza ad eminente personalità, assolveva al proprio compito con sprezzo del pericolo e profonda abnegazione. Proditoriamente fatto segno a numerosi colpi d’arma da fuoco esplosi a distanza ravvicinata da parte di alcuni appartenenti a cosche mafiose, tentava di reagire al fuoco degli aggressori nell’estremo eroico tentativo di fronteggiare i criminali, immolando così la vita nell’adempimento del dovere. Palermo, 3 settembre 1982».

"LE ISTITUZIONI MI CHIUDONO LA PORTA IN FACCIA". IL FIGLIO DI FEDERICO DEL PRETE, GENNARO, DENUNCIA LA MANCATA ASSUNZIONE DA PARTE DELLA REGIONE CAMPANIA

“Avevo chiesto di essere assunto in qualità di familiare di vittima innocente della criminalità, ma La Regione Campania mi ha chiuso la porta in faccia”. La denuncia è di Gennaro Del Prete, figlio di  Federico, sindacalista dei commercianti ambulanti, ucciso dalla camorra a Casal di Principe, il 18 febbraio del 2002. Il giovane, 31 anni e una laurea  in Scienze del Servizio Sociale, ha chiesto l’assunzione  con una lettera inviata  al settore “Reclutamento del personale” di via Santa Lucia, il 14 luglio scorso.  Lo ha fatto riferendosi alla legge  497/98, che prevede per “le pubbliche amministrazioni l’obbligo delle assunzioni degli appartenenti alle categorie protette del terrorismo e della criminalità organizzata o loro congiunti, con precedenza assoluta rispetto alle altre categorie protette, anche per chiamata diretta”. 
Nella lettera che il dirigente del servizio del settore  reclutamento personale della Regione Campania, ha inviato  a Gennaro del Prete l’11 agosto scorso, è scritto, tra l’altro: “…Le comunichiamo che, dall’ultimo prospetto informativo annuale del personale assunto ai sensi della legge n. 68/1999, risulta la totale copertura delle assunzioni obbligatorie. Siamo, pertanto, spiacenti non poter aderire a quanto richiesto e La invitiamo a visionare periodicamente il sito www.regione.campania.it” nella sezione dedicata al Bollettino Ufficiale della Regione Campania (BURC) per reperire, in tempo reale, informazioni in merito a eventuali procedure di assunzione disposte da questa amministrazione”.
Come molti ricorderanno, il papà di Gennaro, Federico del Prete, che aveva fondato un suo sindacato per tutelare i commercianti ambulanti,  fu ammazzato alle sette di sera di una giornata fredda e piovosa, nella sede del suo sindacato in via Baracca a Casal di Principe, il giorno prima di una sua testimonianza in Tribunale dove si celebrava un processo per estorsione ai commercianti che frequentavano la fiera settimanale di Mondragone.
“Non è bastato un lungo braccio di ferro con  il Ministero dell’Interno, per essere riconosciuti quali familiari di vittime della criminalità. Riconoscimento che è avvento solo il 24 gennaio del 2010 – spiega Gennaro del Prete -  Ma ora questo ulteriore schiaffo da parte della burocrazia regionale, che non ha nemmeno la sensibilità di rivolgersi a chi ha perso un proprio caro per mano della camorra, in modo meno freddo e formale, mi delude fortemente, per non dire altro.  Questo rifiuto l’ ho interpretato come un modo per togliermi dalle scatole. Eppure da un Ente che si mette sempre in prima fila nella difesa dei familiari delle vittime innocenti della criminalità, mi aspettavo un atteggiamento diverso e, soprattutto, una risposta diversa. Le assunzioni di noi familiari di vittime innocenti, possono avvenire in forma diretta e al di fuori dei vincoli finanziari del patto di stabilità. Questo stabilisce la legge 407/98. Tra l’altro la regione Campania nella lettera di  risposta fa riferimento ad una normativa ad un’altra normativa, ampiamente superata. Vuol dire che da ora in avanti cambierò anche il mio atteggiamento nei confronti della Regione Campania la Regione Campania. Da ora in poi  non sarà gradita alle iniziative che  saranno promosse per ricordare mio padre, morto per difendere la legalità”. Per la cronaca, in questi giorni è arrivata anche una seconda risposta negativa a Gennaro del Prete.  Ed è quella del Ministero della Giustizia.

giovedì 1 settembre 2011

IL CASO TONI-DE PALO A RAI3, A LA STORIA SIAMO NOI.

Nella puntata di domani de 'La storia siamo noì, in onda su Rai3 alle 8.05, il caso di Italo Toni e Graziella De Palo. È il 2 settembre del 1980 quando i due giornalisti italiani, spariscono in pieno giorno a Beirut, nel Libano sconvolto dalla guerra civile. Da quel giorno di loro non si è saputo più nulla. A nulla sono valsi anni di indagini della magistratura italiana, la cui inchiesta si conclude, nel 1985, con un nulla di fatto. Italo e Graziella svaniscono nel nulla, e la loro scomparsa è un mistero che resiste ormai da oltre 30 anni. Un mistero carico però di omissioni e depistaggi come spesso è accaduto nell'Italia di quegli anni, un mistero di Stato che nella ricostruzione della puntata si è riuscita, almeno in parte, a chiarire.

(FONTE:ANSA).

"IL FILM SU GIANCARLO SIANI? ROVINA L'IMMAGINE DELLA CITTA'". IL SINDACO DI TORRE ANNUNZIATA CONTRO RAI UNO

Ci risiamo. Un altro sindaco che vuole tutelare l’immagine della sua città, censurando la realtà. Giosuè Starita, sindaco di Torre Annunziata, eletto nel Pd e oggi alla guida di un governo di centro-destra, ha scritto una nota di protesta alla RAI, contro la scelta di trasmettere il 5 settembre in prima serata, il film di Marco Risi “Fortapasc”. Un film che racconta la storia dell’assassinio del giornalista precario del “Mattino”, Giancarlo Siani, nella Torre Annunziata degli anni ’80, dove regnavano incontrastati i clan della camorra legati al Nuvoletta, affiliati a Cosa Nostra siciliana. Il motivo è sempre il solito: “In questo modo si danneggia l’immagine della città”. “La RAI  - scrive il sindaco Starita - non è paragonabile a Sky, che da tv commerciale ha mandato più volte in onda questo film, e neanche alle sale cinematografiche: il servizio pubblico deve garantire imparzialità, anche dal punto di vista dell’immagine che rende di una città. Questo è un film che certamente non aiuta il lavoro che è stato svolto in questi anni, un lavoro teso a ridimensionare in modo determinante il ruolo della camorra. Io credo che invece questo film vada compensato con un servizio integrativo, così garantiamo la trasmissione del film ma creiamo anche le condizioni per far vedere una città che vuole cambiare e le sofferenze che ha affrontato in questi anni.” La colpa, ancora una volta, non è della camorra, ma di chi racconta la realtà dei fatti.
Intanto il servizio integrativo la Rai lo farà, ma era già previsto. E’ un reportage firmato da Alessandro Gaeta che andrà in onda subito dopo il film e racconterà non solo di Torre Annunziata, ma anche di altre zone della Campania dove la presenza della camorra è una realtà di fatto.  Il servizio andrà in onda da Napoli, in un bene confiscato a Michele Zaza. Tra gli ospiti, anche Paolo Siani, il fratello di Giancarlo.
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