Il 24 luglio del 1991 veniva assassinato Alberto Varone. Emiliano di Marco, coetaneo ed amico di Giancarlo Varone, figlio di Alberto, che con lui ha condiviso molti momenti tristi, gli invia questa lettera attraverso la rete, perché della famiglia Varone, costretta ad andare via da Sessa Aurunca, non si sa più nulla. Sono diventati "invisibili".
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Questa lettera è rivolta a Giancarlo, figlio maggiore di Alberto Varone e mio amico, di cui non so più nulla, come per gli altri fratelli, sua sorella e sua madre, da 17 anni. EMILIANO DI MARCO
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Caro Giancarlo, come stai?
Oggi fanno esattamente venti anni dall’assassinio del tuo papà, ed almeno diciassette da quando non ho avuto più notizie di te, dei tuoi fratelli, tua sorella, tua madre. Nemmeno più la tomba di tuo padre c’è più al cimitero, è andata via con voi. Diciassette anni in cui non ho potuto chiederti più un semplice “come stai”?
Quando è sceso il silenzio su di voi, dopo che faceste condannare il mandante dell’omicidio di tuo padre, ero già andato via dal paese, più con la testa che con il corpo. E cercai anche io di dimenticare tutto quello che era successo.
Vi portarono via in località segrete, cambiata la vostra identità, strappati per sempre i legami con i vostri familiari ed i vostri amici. Pensai che fosse stato meglio per tutti che fosse andata a finire così, ed alla fine ho ceduto anch’io, come altri, all’oblio.
Mi convinsi anche io che non ci fosse più nessun motivo per cui voi poteste tornare indietro, camminando a testa alta tra la gente, in un paese, in un territorio che stava già morendo e che declinava verso il nulla, nel quale interi settori, anche quelli professionali, erano già diventati ostaggio delle mafie.
Su di voi vennero sparse a regola d’arte le voci dell’infamia. Iene e servi che si sono prodigati per denigrarvi, per svilire il vostro esempio. Allusioni subdole per giustificare l’ingiustificabile. Arrivarono anche a mettere in giro la voce che eri morto in un incidente di motocicletta. Quando me lo dissero, lo ricordo ancora come oggi, ebbi un tuffo al cuore. Sentii di morire. Mi dissi che non era vero, che non poteva essere, che non era possibile…doveva essere un’altra infamia, non poteva essere andata a finire così…
Ho lottato per anni contro il desiderio di cercare di sapere tutta la verità, per l’orrore di che fosse finita in tragedia.
Ecco, se l’oblio ha mai avuto un nome, per me è stato il tuo.
Ho cominciato a ricordare solo dopo molti anni, quando la storia di tuo padre è stata raccontata nel libro “La Bestia”, di Raffaele Sardo, e grazie anche al coraggio di Simmaco, che ha scelto di intitolare al tuo papà, Alberto Varone, il bene confiscato assegnato alla cooperativa da lui fondata.
Grazie anche a loro ho cominciato a ricordare, ed ha provare rimorso. Ho impiegato del tempo, un bel tratto di strada, per ritornare a quegli anni vissuti insieme. Quella strada sono però riuscito a ripercorrerla, ritrovando i ricordi di una adolescenza interrotta.
L’assassinio di tuo padre ha segnato la mia vita, il mio rapporto con questi luoghi. Ho impiegato tempo per capirlo, ma adesso lo so. Ne sono diventato consapevole. Niente è stato più come prima.
Nel ritornare della memoria, dei ricordi, ho potuto rivedere il bel faccione del tuo papà, con quei baffoni e capelli neri, i suoi occhi fieri. Il sorriso di un onesto lavoratore. Ho ricordato le volte che, andando a scuola, l’ho visto addormentato con il mento appoggiato sul petto, su un divano all’ingresso del vostro negozio di mobili. La Kadett rossa con la quale andava a prendere i giornali ogni notte, alle 3, per distribuirli in decine di edicole fino alle 8 del mattino. Due lavori per mantenere una famiglia.
Ho ritrovato poi la memoria della nostra adolescenza, quando eravamo compagni di scuola, le nostre uscite serali, quasi sempre senza meta. Un’amicizia fatta di cose semplici, di luci di paese e corse in auto, o sui treni, nelle città dove si andava insieme per paura di smarrirsi. Tu con i tuoi capelli lunghi, la tua fama di testa calda dal sorriso ribelle. Solo chi ti conosceva sapeva quanto fossi generoso.
E poi ho ricordato quando, di notte, dopo la morte di tuo padre, andavamo insieme a prendere i giornali, quando prendesti il posto che era suo, accettando l’offerta dell’agenzia, uno dei pochi gesti di solidarietà concreta che avete ricevuto. Per me, per noi che ti abbiamo accompagnato, facendo i turni, era l’unico modo per starti vicino e non farti sentire la solitudine. Un modo per provare a donare un senso di protezione, per non arrendersi, per non accettare la realtà. Per addolcire il dolore.
Ogni notte, in ogni viaggio, abbiamo condiviso le lacrime per l’ingiustizia e le risate, strappate a quello che rimaneva della nostra adolescenza, tra i deserti paradisi della provincia di Caserta, tra i pini ai lati di una strada sgombra di auto, illuminata solo dai fari, nella notte del nostro territorio.
Insieme vivevamo i silenzi. A volte una carezza riusciva a consolare il singhiozzo. Andavamo così, ogni notte, fino al mattino, con la paura di incontrare loro, con l’incoscienza che ci diceva che se fosse successo non avremmo abbassato lo sguardo.
Sulla strada eravamo obbligati a passare ogni notte, due volte, sul luogo dove avevano ucciso tuo padre, e davanti l’autorimessa nella quale era stata depositata la sua Kadett rossa. Stava lì, proprio di fianco alla strada, un faretto che mostrava la fiancata squarciata dai pallettoni, come per uno scherzo di cattivo gusto.
Ricordo la tua felicità quando la facesti tornare come nuova, per viaggiare con lei la notte sull’Appia. La macchina rossa di Alberto ‘Nanas era tornata.
Loro, finché hanno potuto, non hanno mai smesso di tormentarvi, con una inaudita violenza psicologica, frutto sicuramente di menti malate. Ricordo di quando mi raccontavi delle telefonate anonime che riceveva tua madre. Chiamavano di notte, dopo che tu eri andato a prendere i giornali. Le facevano sentire voci registrate di bambini che piangevano, campane a morto, minacce esplicite per indurvi a non parlare. Rubavano anche la pace di qualche ora di sonno ad una madre preoccupata.
Erano i nostri vent’anni, di venti anni fa. Oggi tutto tace. Solo pochi tessitori portano avanti la memoria. Ricordare serve solo a provare a dire a noi stessi chi siamo stati…chi siamo…
Perché non possa accadere mai più.
Amico mio, dove sei? Come stai? Sei ancora colmo di ricordi e preoccupazioni? Riuscirò mai a riabbracciarti? Guardarti negli occhi? Dirti che ti ammiro per quello che hai fatto? Mi perdonerai mai per i miei errori? Riuscirai a ridere nel vedere come mi sono fatto grande? Anche grazie a te…
Metterò questa lettera sul mio blog, nella speranza che tu possa leggerla.
Ciao e buona fortuna, che il tuo viaggio ti sia sempre lieve. Un giorno, lo sento, ci riabbracceremo
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